Perché sul caso Salis avete rotto i coglioni
Disclaimer: questo è un articolo di opinione che riflette l’idea personale dell’autore e che non ha subito alcuna revisione o modifica da parte di Termometro Politico.
Stando ai dati forniti dall’Osap, l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, attualmente sono oltre 2.600 i cittadini italiani detenuti all’estero. Possiamo affermare senza timore di smentita che della loro sorte ai nostri connazionali frega pochissimo: nel paese del “buttate la chiave” e del “marcissero in prigione” sono considerati un fastidioso orpello i diritti dei carcerati nelle patrie galere, figuriamoci quelli di chi si trova dietro le sbarre in un paese straniero. Eppure da mesi gli italiani ricevono dagli organi di informazione aggiornamenti costanti, se non quotidiani, sulle condizioni detentive e medico-sanitarie di una giovane donna, Ilaria Salis, detenuta in Ungheria da febbraio 2023 con l’accusa di aver partecipato a un raid punitivo contro alcuni militanti di estrema destra: alla maestra antifascista di Monza i magistrati contestano sia il reato di lesioni personali che quello di far parte della ‘Hammerbande’ (‘Banda del martello’, ndr), gang anarco-comunista famosa per andarsene in giro per l’Europa a menare gli avversari politici.
Le foto di Salis portata in catene nell’aula del tribunale hanno fatto il giro del mondo e indignato, giustamente, una larga fetta della politica e dell’opinione pubblica italiana – anche se nell’Ungheria di Viktor Orban è prassi ordinaria condurre al ‘guinzaglio’ i detenuti considerati di media pericolosità. Inaccettabile il trattamento riservato alla giovane attivista, secondo il paese che diede i natali a Cesare Beccaria ma che, a onor di cronaca, è lo stesso paese in cui nel 1993, in piena Tangentopoli, il politico Dc Enzo Carra fu immortalato senza pietà con gli schiavettoni ai polsi; lo stesso paese degli omicidi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, della “macelleria messicana” di Bolzaneto e della scuola Diaz; lo stesso paese richiamato dall’Unione europea per l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva. In buona sostanza, lo stesso paese in cui molto spesso si è fatto carta da cesso delle garanzie costituzionali di chi, in una condizione di palese debolezza e di privazione della libertà, si trovava nelle mani dello Stato. Ma questa è un’altra storia.
Stampa e partiti di sinistra in Italia hanno sposato con grande trasporto la causa di Ilaria Salis, non limitandosi a invocare un equo trattamento della detenuta – cosa sacrosanta – ma elevandola a eroina contro i soprusi del regime del fascista Orban e strumentalizzando una delicata vicenda giudiziaria in chiave politica per mettere in difficoltà il governo di Giorgia Meloni, presidente del partito Conservatore europeo al quale Orban potrebbe aderire dopo il voto Ue di giugno. Una progressiva opera di canonizzazione laica sfociata nella pantomima della candidatura alle europee che inizialmente il Pd avrebbe offerto a Ilaria, salvo poi tornare sui suoi passi.
Di Salis, incoronata da Repubblica come erede di Antonio Gramsci, abbiamo letto i quaderni dal carcere e i fumetti a lei dedicati da un noto autore di disegnini maître à penser, che ha deciso di aggiornarci sul processo con una rubrica settimanale (fateci caso, quando la sinistra cavalca un tema fioccano sempre vignette, murales e narrazioni iconografiche emozionali per coinvolgere e fidelizzare un pubblico); sappiamo tutto delle cimici che tormentano le sue notti nelle prigioni magiare e ormai abbiamo imparato a familiarizzare col padre Roberto, contesissimo da tv e giornali per interviste che ormai non si contano più. Lo scherma drammaturgico costruito dal gruppo Gedi e dalle sue emanazioni parlamentari è perfetto: da una parte la giovane antifascista paladina dei buoni, dall’altra l’orrido nazi-orco Orban e i suoi sodali italiani incapaci di spezzare le catene che rendono schiava la ragazza. E pazienza se sugli stessi reati contestati a Salis in altre situazioni si sorvolerebbe con minor disinvoltura.
Mettiamo, per esempio, che un giovane della destra radicale venga arrestato in Belgio o in Olanda con l’accusa di aver malmenato dei manifestanti di sinistra e che questo ragazzo lamenti un trattamento pessimo da parte delle autorità dello Stato in cui è recluso; immaginiamo che il padre di questo giovanotto descriva come semplice “strumento di difesa” il manganello di cui il figlio è stato trovato in possesso; e ipotizziamo, per un istante, che uno stuolo di parlamentari di Fratelli d’Italia si rechi in pellegrinaggio in tribunale per portare solidarietà all’estremista – ripreso in aula con gli occhi spiritati e con un sorrisetto stampato in faccia – e che la leader di quel partito arrivi addirittura a prefigurare una candidatura del detenuto come capolista alle europee.
Di fronte a un simile scenario, cosa si direbbe? A quanti starebbero a cuore i diritti umani di questa persona? Gli stessi soggetti e le stesse organizzazioni che oggi si stracciano le vesti per Salis salterebbero alla giugulare di chiunque provasse a dire o a fare le stesse cose che loro hanno detto e fatto, se al posto della maestra di Monza in ‘gabbia’ si fosse trovato un estremista di segno opposto. Sono illuminanti in tal senso le parole di un gigante del pensiero contemporaneo, il mai banale Christian Raimo, che ospite di un salotto televisivo ha sentenziato con estremo candore che i neonazisti vanno picchiati. Testuale.
Il cinismo e il pressappochismo con cui la sinistra ha sfruttato il caso Salis per farne l’ennesimo santino da campagna elettorale hanno finito per nuocere alla stessa attivista, impedendo alla diplomazia di muoversi con discrezione e di fare il proprio lavoro: il penoso caravanserraglio di parlamentari italiani in trasferta a Budapest e le pressioni dei media curiosamente non hanno fatto breccia nel cuore dei giudici ungheresi, dai quali anzi è arrivato un secco no alla richiesta di domiciliari avanzata dai legali di Salis, nonostante lo sguardo torvo di Laura Boldrini e i disegnini impegnati di Zerocalcare.
Si potrebbe accusare Pd e compagnia cantante di riservare alla Salis una corsia preferenziale rispetto a molti casi analoghi: ma se i risultati sono questi, la speranza per gli oltre 2.600 detenuti italiani all’estero è che la politica e la stampa nostrane continuino a disinteressarsi di loro.
SEGUI TERMOMETRO POLITICO SU FACEBOOK E TWITTER
Hai suggerimenti o correzioni da proporre? Scrivici a redazione@termometropolitico.it