Il fallimento del Cop15 ed i nuovi equilibri mondiali
Il fallimento della conferenza Onu sul clima mette in luce la crisi di una stagione segnata da meeting internazionali voluti e gestiti univocamente dai paesi occidentali che incrementavano così il proprio soft power. Il ruolo di India e Cina e la nascita del gruppo Basic.
[ad]Il paradosso dell’esito del Cop 15, ossia della 15ma conferenza Onu sui cambiamenti climatici, non sta tanto nell’incapacità di trovare un accordo proprio mentre eventi atmosferici rigidissimi ed in rapido cambiamento hanno paralizzato treni ed aerei di mezza Europa (simbolo evidente, semmai ce ne fosse bisogno, dell’effettiva incidenza del global warming sulla nostra vita), quanto nel fatto che su di esso si fossero riversate aspettative salvifiche. E così il vero risultato della conferenza di Copenaghen è stato il venire alla luce di un gruppo di coordinamento tra i paesi emergenti ribattezzato “gruppo BASIC”.
Il Trattato di Copenaghen avrebbe dovuto essere un’intesa internazione di valore legale che impegnava tutti gli stati ad una riduzione delle emissioni di gas serra per il contenimento della temperatura, in grado di sostituire il disatteso Trattato di Kyoto, in scadenza per il 2012. Si sarebbe trattato, in sostanza, di disegnare una nuova economia sempre meno dipendente dai combustibili fossili. Seguendo queste aspirazioni il vertice nella capitale danese è stato un vero fiasco: nessun trattato di valore legale, nessun vincolo per gli stati firmatari. E soprattutto è mancato il consenso intorno alla proposta finale al punto che non solo molti stati hanno definito non condivisibile ed inconcludente il Copenhagen Accord, ma quest’ultimo non è stato neppure ratificato dall’assemblea plenaria dei 192 paesi che aderiscono alla convenzione climatica dell’Onu. Ma c’è un nuovo impegno: quello di riconvocare l’assemblea entro l’anno prossimo per definire meglio la strategia di riduzione delle emissioni entro il 2020, o forse per far dimenticare la figuraccia di quest’anno; sembra già sicura la sede di Città del Messico.
Sappiamo che la principale causa del global warming è ritenuta essere l’effetto serra, causato soprattutto dai gas serra generati dall’attività dell’uomo; tra questi il biossido di carbonio (CO2) è il più importante. Il Fourth Assessment Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite rileva che le emissioni di gas serra sono aumentate del 70% tra il 1970 e il 2004. In particolare il CO2 – responsabile del 77% delle emissioni totali – è cresciuto dell’80% (da 21 a 38 miliardi di tonnellate). L’aumento più significativo si è registrato durante il decennio 1995–2004. La crescita delle emissioni di gas serra è stata principalmente causata dall’aumento della produzione di energia, dal trasporto e dall’industria in generale. Secondo uno studio prodotto dall’European Climate Foundation (ECF) in uno scenario caratterizzato dal “business as usual” le emissioni potrebbero aumentare nel lungo periodo fino a raggiungere 70 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente nel 2030. Questo si tradurrebbe in un aumento della temperatura di oltre 3°C, superando così l’obiettivo dei 2°C entro la fine del secolo indicato dalla comunità scientifica.
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[ad]Gli Stati Uniti sono secondi solo all’Australia in termini di emissioni pro capite (rispettivamente 20,5 e 19,78 tonnellate di CO2 all’anno) e sono tra i primi responsabili della CO2 già immessa nell’atmosfera. Nonostante tutto questo non hanno ancora assunto impegni vincolanti in materia; addirittura durante l’era Bush c’era un’ostilità manifesta al Protocollo di Kyoto. L’era Obama si è subito caratterizzata per aver messo la sicurezza energetica ed i problemi ambientali tra le priorità del proprio operato ma, nonostante questo, nulla di concreto è stato ancora fatto. Di converso i paesi le cui economie stanno registrando una rapida e sostanziosa crescita anche in questo periodo di non facile congiuntura economica (Cina, India, Unione Africana in particolare) hanno mostrato un interesse al tema, purché però questo non comporti un rallentamento della loro crescita economica. Per esempio la Cina (dove le emissioni sono aumentate del 120% dall’inizio del decennio) ha annunciato di voler ridurre del 40–45% entro il 2020 l’ammontare di biossido di carbonio emesso per unità di PIL rispetto ai livelli del 2005 e per ottenere questo obiettivo vorrebbe portare la propria quota di energie rinnovabili nel mix energetico nazionale al 15% entro il 2020. Mentre l’India rimane orientata a non adottare impegni internazionali vincolanti. Recentemente il ministro dell’Ambiente Jairam Ramesh ha affermato che «gli obiettivi internazionali vincolanti sono e rimangono unicamente per i paesi industrializzati».
Ecco perché è lecito chiedersi se l’appuntamento di Città del Messico del 2010 serva realmente a qualcosa e, soprattutto, se fosse immaginabile una conclusione diversa per il vertice di Copenaghen. Sembra, con le dovute differenze, di rivivere l’aria che si respirava a Versailles nel 1789. All’epoca il Primo Stato (il clero) assieme al Secondo (la nobiltà) rappresentavano solo il 2% della popolazione francese mentre il Terzo Stato, teoricamente, rappresentava il restante 98%. Di fronte all’incapacità di gestire la pesantissima crisi economica che attanagliava la Francia, la nobiltà ed il clero chiesero alla borghesia emergente (il Terzo Stato) di cooperare alla soluzione dei problemi, disegnando in questo modo un nuovo assetto di poteri. Per questo motivo molti nella classe emergente videro la convocazione degli Stati Generali come una possibilità di guadagnare potere. Allo stesso modo (fatte salve le specificità dei due diversi contesti storici) quello che è avvenuto al Cop15 è il venire alla luce di un nuovo equilibrio internazionale dove il peso ed il condizionamento dei paesi emergenti –chiamati a farsi carico di una situazione ambientale che in gran parte non hanno causato- diventa sempre più forte e vincolante. E la descrizione delle ultime ore convulse di trattative per salvare Copenaghen dal fiasco totale, che hanno visto Obama rincorrere il primo ministro cinese Wen e marcare stretto gli altri Paesi emergenti (senza preoccuparsi di lavorare con Unione Europea e Giappone), la dice lunga sul ruolo di global player che hanno assunto paesi come il Brasile, il Sud Africa, l’India e la Cina.
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[ad]Una soluzione condivisa del problema può quindi passare solo da una diversa tipologia di negoziazione ed una diversa scelta dell’obiettivo, che passa necessariamente dal superamento dell’impostazione “meno emissioni – meno uso di combustibili fossili” perché questo viene vissuto come “meno sviluppo” da parte delle economie emergenti. Del resto, come ha osservato il responsabile Onu per l’ambiente Yvo de Boer: “in India 400 milioni di persone vivono senza accesso alla corrente elettrica. Come gli dici di spegnere una lampadina che non hanno?”. Un nuovo assetto internazionale che obblighi paesi popolosi come la Cina e l’India (rispettivamente al primo e quinto posto mondiale nelle emissioni dei gas serra) al rispetto di un tetto alle emissioni globali potrebbe verificarsi solo in cambio di un patto che crei un equilibrio duraturo tra l’esigenza (dovere) di ridurre le emissioni e la richiesta (diritto) a far sviluppare la propria economia.
Alla fine l’intesa trovata sul filo del rasoio tra Usa, Cina, India, Brasile e Sud Africa è stata su un documento non vincolante, che assume come obiettivo un aumento massimo di temperatura di 2 gradi con una riduzione di emissioni su base volontaria tra i vari paesi. Una proposta molto simile a quella voluta dal gruppo Basic in contrapposizione alla bozza danese, che è stata diffusa dal quotidiano Le Monde (che potete vedere qui) e che è imperniata sul continuo del Protocollo di Kyoto e sul taglio, da parte dei paesi ricchi, dei gas serra del 40% al 2020 rispetto al 1990 e senza ricorrere a meccanismi di compensazione.
BASIC è l’acronimo che sta per Brasile, Africa del Sud, India e Cina ed indica il nuovo “caminetto internazionale” dei paesi emergenti che è venuto alla luce in questo negoziato sull’ambiente. Da notare come la proposta sia stata formalmente avanzata assieme al Sudan, paese che preside il cosiddetto gruppo dei 77 che, nato il 15 giugno del 1964, raggruppa i 77 paesi in via di sviluppo firmatari della “Dichiarazione unitaria dei 77 stati”, sottoscritta alla prima sessione della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo e il Commercio (UNCTAD).
Per tenere compatto tutto il gruppo dei 77, nel quale ci sono piccole isole e molti stati particolarmente vulnerabili (che sono quindi più preoccupati dei paesi emergenti per i probabili impatti del global warming e spingono per un accordo più coraggioso), la proposta del gruppo BASIC ha fatto leva sull’istituzione di fondi per l’adattamento che ne riconoscono la necessità di misure ad hoc, riuscendo così a mantenere coeso un blocco di paesi tra loro profondamente diversi. Ma la politica ispiratrice di questa nuova “cabina di regia” del gruppo dei 77 è riassumibile nella formula contenuta nel documento che così recita: “lo sviluppo economico e lo sradicamento della povertà sono una priorità indiscutibile dei paesi in via di sviluppo”. Un postulato che sostanzialmente racchiude la filosofia economica del gruppo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), secondo cui la riduzione tout court delle emissioni nei paesi in ripresa economica significa rallentare la produzione industriale, e quindi lo sviluppo. Filosofia appoggiata anche dalla Russia che è stata presente nella capitale danese col presidente Dmitri Medvedev solo durante i due giorni finali.
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[ad]Obama ha accettato al sfida di questo “asse del Pacifico”, anche perché dopo aver rafforzato il contingente Usa in Afghanistan di altri 30mila soldati, sa che sul tema dell’ambiente, punto qualificante del suo programma elettorale, si gioca un consenso popolare in crescente diminuzione. L’Unione Europea, nonostante giocasse in casa, è stata invece il convitato di pietra dei 12 giorni di trattative: partita con progetti ambiziosi ed impegni forti, ha dovuto accettare un accordo negoziato tra il gruppo BASIC e gli Usa, senza avere voce in capitolo per condizionarlo o discuterlo.
In fondo il Cop15, con la sua “presa d’atto” del Copenhagen Accord testimonia di quanto sia stato diseguale lo sviluppo in questi 150 anni di crescita economica a seguito della rivoluzione industriale e di quanta distanza intercorra ancora tra le economie dei paesi ricchi e quelle dei paesi poveri, ragion per cui diventa difficile convincere a rallentare il proprio sviluppo a chi solo oggi vede la possibilità di un miglioramento delle proprie condizioni di vita. La partita, rimandata al round del 2010, è appena cominciata, ma per giocarla fino in fondo sarà necessario rivedere le regole del gioco.
di Francesco Maringiò