Biden, fine della corsa. E adesso? L’analisi e gli scenari
Disclaimer: questo è un articolo di opinione che riflette l’idea personale dell’autore e che non ha subito alcuna revisione o modifica da parte di Termometro Politico.
Tanto tuonò che piovve. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ufficializza il suo ritiro dalla corsa alla Casa Bianca. Il colpo definitivo è arrivato, probabilmente, da quello che ha mancato, per un soffio, il candidato repubblicano Donald J. Trump. E se il tycoon sembra sempre più lanciato verso la presidenza (ciò che non ti uccide ti fortifica), per sleepy Joe (così soprannominato dai suoi avversari) si era fatta notte fonda. Il presidente degli USA fa così un giusto, doveroso passo indietro, che probabilmente non cambierà l’esito della competizione elettorale ma che ravviva un minimo le speranze dei democratici.
Joe Biden: too late
L’errore principale del presidente Biden è stato, con buona probabilità, quello di prolungare oltremodo l’agonia della sua campagna elettorale. Il candidato dei democratici mostra, da mesi, una condizione psico-fisica totalmente inadeguata non solo per i ritmi della campagna (che è tra le più estenuanti al mondo, considerando i kilometri da percorrere lungo tutti i 50 stati degli USA) ma soprattutto per compiere con quei doveri a cui è chiamato il presidente per i successivi 4 anni. Guardando in prospettiva, sarebbe bastato veramente poco al presidente Biden per capire che era necessario fare un passo indietro. Giunti a luglio e a quattro mesi dalle elezioni, si può affermare che il ritiro fosse l’unica soluzione politicamente responsabile. Peccato per i democratici, però, che questa sia giunta con colpevole ritardo. I tempi di preparazione di una campagna elettorale negli Stati Uniti sono decisamente più lunghi rispetto a quelli a cui noi siamo abituati, vuoi per la vastità del territorio, vuoi per la popolazione da raggiungere e vuoi per attivare gli esponenti territoriali e prepararli ad una campagna che si gioca spesso nel porta a porta. Una macchina logistica e organizzativa che va messa in moto con rilevante anticipo. Se cambia il candidato da portare alla Casa Bianca, l’impatto della campagna sarà sicuramente minore.
Tra Kamala e Michelle, ma…
Il nome principale per subentrare a Joe Biden è quello dell’attuale vicepresidente degli USA, Kamala Harris e che, con buona probabilità, sarà confermata come candidata dei democratici. Non una leader che ispiri particolare fiducia o che muova le masse ma è, in questo momento, il volto maggiormente spendibile per una campagna flash. La Harris, stando alle analisi bipartisan, è una figura tiepida e che è sempre rimasta nell’ombra di Joe Biden. Un profilo che ha mostrato finora fin troppo poco carisma per poter competere con un dominatore della scena pubblica come Donald Trump. Dalla sua, Kamala Harris potrebbe contare su quei segmenti su cui i democratici sono già forti. Quasi tutti i sondaggisti statunitensi (9 su 11) danno la vittoria ai repubblicani. Due, invece, indicano la Harris come vincitrice della sfida elettorale di novembre. Il tycoon è avanti nel voto popolare in una forbice compresa tra 1 e 3 punti ma sappiamo che, per il sistema elettorale statunitense, ciò che importa è la vittoria negli swing States, ovvero quelli che non sono fortini tinti di rosso repubblicano o blu democratico. In questo, la scelta del vicepresidente risulterà cruciale. Trump ha puntato tutto su un rappresentante della rust belt. Kamala Harris – ancor più del tycoon – avrà bisogno di un vice dall’alto potenziale di mobilitazione.
Oltre il nome di Harris, il “sogno proibito” di alcuni democratici e di vari media è quello di Michelle Obama. L’ex first lady, inquilina della Casa Bianca dal 2009 al 2017, è un nome che risuona ormai da anni e che, al di là della sua effettiva concretezza, torna sempre. Un po’ come per l’Italia l’ormai celeberrima “ipotesi Amato”. È chiaro che, quanto più la strada si fa impervia, tanto più si invoca il deus ex machina. Attualmente, però, Michelle fa orecchie da mercante e sembra decisamente poco interessata a prendere il posto di Joe Biden. Inoltre, se questo non fosse sufficiente…
… ci sono questioni tecniche che puntano in un’unica direzione
Tra le ragioni che spingerebbero i democratici a scegliere Kamala Harris come sostituta nella corsa alla presidenza ci sono delle motivazioni squisitamente tecniche e burocratiche che, però, potrebbero avere un impatto estremamente rilevante. Quello principale riguarda l’accesso ai fondi per le donazioni ottenute dal ticket Biden-Harris. In caso di altri candidati, infatti, ci sarebbe un congelamento di tali fondi. E questo sarebbe un problema enorme per i democratici, considerando che la campagna per le presidenziali USA è, probabilmente, la più costosa al mondo.
Infine, c’è un dettaglio tecnico che spingerebbe i democratici a “darsi una mossa” e a chiudere quanto prima il nuovo ticket presidenziale. Vista l’enorme macchinaria burocratica e organizzativa messa in piedi da ogni singolo Stato, i tempi di produzione della documentazione e delle schede elettorali non sono brevissimi. In particolare, c’è il tema dell’early voting (voto anticipato) che permette agli elettori di scegliere il proprio candidato ben prima del 4 novembre (in alcuni casi, addirittura 46 giorni prima delle elezioni). Un ulteriore dato da tenere in considerazione e su cui i democratici dovranno necessariamente riflettere.
Donald Trump, strada spianata?
Stando alle rilevazioni demoscopiche, il fallito attentato ai danni di Donald Trump ha spianato la strada verso la Casa Bianca al già 45esimo presidente degli USA. In Italia abbiamo visto come ben 8 persone su 10 credano che ciò che è accaduto in Pennsylvania abbia favorito il tycoon di New York.
La rinuncia di Biden apre uno scenario di forti fibrillazioni in seno al partito dell’asinello e regala ancor più serenità al candidato repubblicano. Per quanto fosse un atto dovuto e necessario, il ritiro del presidente USA può essere vista – e percepita – come una vera e propria alzata di bandiera bianca. In questo momento, Trump è il favoritissimo alla presidenza, un ruolo per lui inedito (ha sempre “giocato” da underdog, a rincorrere) ma a cui sembra già ben preparato. Il tono dei suoi primi interventi post-attentato è già fortemente presidenziale. In accoppiata con il più radicale JD Vance, Trump può mirare ad una ampissima fetta d’elettorato: sia quello ultra-conservatore e nazionalista (su cui storicamente ha una forte presa) sia a un segmento più moderato, liberale e liberista, deluso dalla presidenza Biden.
In sintesi, che scenari?
Ma allora, che scenari si prospettano? Si parte dai dati più incontrovertibili: Donald Trump è in vantaggio e partirà avanti rispetto a qualsiasi candidato democratico. La macchina repubblicana è ben oliata e a pieno regime, mentre i democratici sono in piena fase di ristrutturazione e, causa attentato al loro avversario, hanno dovuto fare a meno di un elemento chiave della loro narrazione relativo all’incitamento alla violenza da parte del tycoon. Per i democratici sarà fondamentale agire rapidamente e con fermezza, trovando nel più breve tempo possibile sia il candidato che il vice. Da lì, provare ad ottimizzare le risorse a disposizione e capire in quali swing State bisognerà puntare le proprie fiches (che sono decisamente di meno rispetto a quelle dei repubblicani). La partita è ancora aperta, anche se le odds (chance) sono diametralmente opposte.
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