Sea Shepherd “infierisce” sul Giappone

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Nell’ultimo anno il Giappone ha dovuto subire anche un pesante colpo ad un settore fondamentale della sua economia: la pesca

[ad]Dopo il terremoto dell’11 marzo scorso, il conseguente devastante tsunami ed il pericolo nucleare che incombe da giorni su Fukushima, pare proprio che non sia un buon periodo per l’economia giapponese, recentemente anche scalzata dal secondo posto nella classifica mondiale del PIL dalla Cina. Pur non volendo mettere il dito nella piaga, ci sembra interessante riportare quest’anno sia stato “devastante” per il Giappone anche da un altro punto di vista, piuttosto importante: il mercato delle balene, la cui attività di caccia nell’Antartico è stata per la prima volta sospesa a causa delle pressioni esercitate dall’associazione in difesa dell’ambiente chiamata Sea Shepherd.

Nata nel 1977, Sea Shepherd si pone l’obiettivo di intervenire direttamente per la conservazione dell’ambiente marino, laddove le leggi che lo proteggono vengano violate da governi, industrie o singoli individui. Paul Watson, fondatore dell’organizzazione, da sempre tiene a precisare come l’azione di questa ong non sia volta alla protesta, pur legittima, nel caso di violazioni di obblighi internazionali, quanto piuttosto mirata al rafforzamento della efficacia delle leggi vigenti e della loro applicazione. E se la legge è fatta per essere aggirata, Sea Shepherd si propone di agire come “guardiano dei mari”. Ecoterroristi contro governi? In realtà, non si può ridurre ad una tale semplificazione la battaglia, non solo navale ma soprattutto legale, che oppone l’organizzazione non governativa all’industria della pesca illegale.

Simbolo di questo impegno per la conservazione dell’ambiente marittimo è lo scontro che avviene in Antartide, da quasi dieci anni, tra le navi nere di Sea Shepherd e la flotta baleniera giapponese. Ogni estate (australe) la flotta baleniera si prefigge una quota di balene da pescare ed ogni anno, dal 2002 – con l’eccezione degli anni 2003 e 2004 – viene “disturbata” dagli ambientalisti, che si oppongono e cercano di contrastare la caccia alle balene, illegale secondo la moratoria internazionale del 1986 che l’ha messa al bando per scopi commerciali. Proprio secondo una diversa interpretazione di tale moratoria, il governo giapponese giustifica invece la caccia alle balene come un’attività perfettamente legale e “scientifica”. È necessario tornare indietro nella storia legislativa della caccia alle balene per fare luce sulle differenti interpretazioni di questo nodo giuridico. Dopo la seconda guerra mondiale, le grandi potenze hanno sentito il bisogno di creare la Convenzione internazionale per la regolazione della caccia alle balene, che ha visto nascere di conseguenza, nel 1949, la Commissione internazionale per la caccia alle balene (IWC), tuttora in attività. Negli anni ‘70, varie proposte di moratoria per bandire la caccia commerciale alle balene sono rimaste lettera morta, mentre solo nel 1982 la Commissione ha approvato una moratoria che vieta la caccia alle balene per scopi commerciali. Il Giappone, senza sorprendere nessuno, ha votato contro; ciò non ha impedito alla moratoria di entrare in vigore nel 1986.

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[ad]Il Giappone giustifica la propria di attività di caccia alle balene richiamandosi all’articolo 8 dell’ICWR, che autorizza i governi membri a concedere dei permessi alla loro industria baleniera per la caccia, a patto che essa sia motivata da “ragioni scientifiche” e a condizione che tali permessi siano riferiti poi alla Commissione. Da ciò ne è derivata la creazione, da parte del Giappone, dell’Istituto per la ricerca sui Cetacei (ICR), finanziato dal governo giapponese e da questo finanziato. Quest’interpretazione “restrittiva dei limiti” imposti a livello internazionale alla caccia alle balene, va però contro quella fornita dalla stessa Commissione, che già dal 1976 ha stabilito che sulla “legittimità” dell’attività di caccia alle balene la parola definitiva spetta al Comitato scientifico dell’IWC. Nonostante ciò, il Giappone ha continuato a cacciare le balene, spesso anche contro il parere negativo del Comitato. Sono quindi seguite numerose risoluzioni di condanna dell’attività della flotta nipponica da parte della Commissione internazionale, e non sono mancati casi di forti tensioni con gli Stati Uniti, che nel 1988 hanno revocato i privilegi, fino a quel momento accordati ai giapponesi, per la pesca nelle loro acque. Inoltre, la Commissione ha subordinato la “legittimità” delle azioni legate alla caccia alle balene ad una serie di condizioni: la produzione di rapporti scientifici e tempestivi, la dimostrazione della necessarietà della caccia per ragioni scientifiche e, soprattutto, della impossibilità di utilizzo di strumenti di ricerca diversi e non letali per gli animali ai fini dello stesso risultato scientifico. Almeno 19 risoluzioni dell’IWC hanno denunciato la non conformità dell’attività svolta dalla flotta giapponese rispetto a questi criteri, chiedendo da ultimo con forza nel 2005 e nel 2007 la rinuncia alle “ricerche letali”.

Ci si è chiesto allora perché nessuno intervenisse per fermare la caccia alle balene in Antartide. Per Paul Watson non bastano le risoluzioni se queste poi non vengono applicate: e così, come spiega Peter Hammarstedt, primo ufficiale della nave Bob Barker, Sea Shepherd si trova ad agire quale “polizia non ufficiale” dell’IWC e dei mari in generale. “La nostra azione si giustifica sulla base del principio di Norimberga, nato dopo il processo ai crimini nazisti della Seconda guerra mondiale. Esiste l’obbligo morale di denunciare i reati dei quali si è testimoni, anche se non si è parte attiva del reato. Sea Shepherd è un’organizzazione che si prefigge di fare applicare le leggi che esistono, per fermare i massacri e la distruzione del nostro ambiente”. Ciò che contraddistingue l’ong è l’azione diretta piuttosto che la mera protesta. Questo principio trova conferma e maggior forza nel dettato della Carta Internazionale delle Nazioni Unite, che sancisce il diritto degli individui di agire laddove si riscontrino atti di distruzione dell’ambiente. Essendo la legge internazionale prevalente su quella nazionale, questo principio permette a Sea Shepherd di intervenire ovunque, anche in acque nazionali. Le contestazioni mosse contro il Giappone per la sua attività di caccia alle balene nel santuario antartico, secondo le denunce di Sea Shepherd ma non solo, sono le seguenti: la “ricerca letale” non è necessaria e mette a rischio alcune popolazioni di balene anziché proteggerle; la caccia prosegue anche a fronte dei pareri contrari dell’IWC e viola il Trattato Antartico, la Convenzione di Washington (CITES) e la Convenzione di Canberra in materia di conservazione delle risorse marine viventi in Antartide; inoltre, l’attività in questione si pone in contrasto con quanto disposto da un’ordinanza della Corte Federale Australiana che proibisce la caccia alla balene nelle acque del Territorio Antartico Australiano e avviene per scopi commerciali anziché scientifici, generando peraltro un enorme giro di corruzione. Per quanto concerne il carattere scientifico o meno dell’attività di caccia alle balene effettuata in Antartide, nel 2002 molti esperti, da tutto il mondo, hanno denunciato la non scientificità della presunta ricerca giapponese, la quale appunto non avrebbe i requisiti minimi per essere definita come tale: l’Istituto di Ricerca sui Cetacei, a sostegno della tesi contraria, ha prodotto di fatto pochissimi documenti rilevanti, e comunque non abbastanza da giustificare l’esistenza di un programma annuale di caccia.

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[ad]Inoltre, è interessante notare il rapporto esistente fra l’attività di caccia alle balene ed il consumo che della carne di balena si riscontra in Giappone, dove appunto è possibile trovarla nei mercati alimentari o sotto forma di scatolette di cibo per animali domestici. Nonostante il fatto che la domanda di carne di balena per il consumo domestico sia in netto calo tra la popolazione – e i frigoriferi dell’ICR sono pieni al punto da assicurarne due anni di consumo senza bisogno di pesca alcuna – i livelli dell’indotto industriale che ruotano intorno alla caccia alle balene (si pensi solo alle necessità legate alla costruzione di navi baleniere) sono talmente elevati che non permettono di immaginare una fine dell’attività di caccia, almeno nel breve periodo. Bisogna chiedersi chi trae profitto dalla caccia: come nel caso delle guerre, esistono sempre, anche se  nell’ombra, interessi in ballo così alti che l’attività continua anche qualora sia diventata, paradossalmente, irrazionale. La caccia è sovvenzionata dallo Stato, che investe milioni di yen tramite l’agenzia della pesca. Secondo Paul Watson,  “è naturale che ci sia corruzione all’interno del settore giapponese della caccia alla balena. Il sindacato che rappresenta gli equipaggi delle navi baleniere è un sindacato controllato dalla Yakuza e la Yakuza è l’equivalente giapponese della mafia”; questa organizzazione “fa pressioni per continuare l’operazione delle flotte a fornire posti di lavoro per i membri del sindacato”. Per questo Sea Shepherd si concentra sul lato economico come arma per colpire: l’unico modo per fermare la caccia alle balene è colpire il punto debole dell’avversario, ovvero i profitti. Se le navi non possono pescare e non possono vendere la carne, di conseguenza diventa eccessivamente oneroso per il Giappone scendere fino ai mari antartici ogni anno.

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[ad]Il problema della “pesca massiccia” non riguarda però solo le balene in Antartide. Anche vicino alle coste italiane, nel Mediterraneo, la pesca intensiva del tonno rosso mette a rischio un intero ecosistema. Gli attori sono sempre gli stessi, ovvero navi di contrabbando che pescano al di fuori della stagione e delle norme internazionali. Anche il destinatario è lo stesso, il mercato giapponese. E anche in questo caso Sea Shepherd è presente con le sue navi per tentare di fermare un processo che può portare alla catastrofica estinzione del tonno rosso nei prossimi dieci anni. Il tonno rosso, pietanza pregiata in particolare dagli amanti del sushi, è un c.d. “predatore apicale”, ossia al vertice della catena alimentare. Ne risulta che l’impatto della sua cattura sull’ecosistema è carico di conseguenze, come dimostrato da uno studio, Seafood Print, condotto per la National Geographic Society. Il tonno si nutre di predatori intermedi che, a loro volta, si nutrono di predatori primari: sopprimere il tonno rosso vuol dire travolgere l’intero equilibrio marino, con la conseguente proliferazione esponenziale di alcune specie e la sparizione di altre.

Secondo una semplice equazione, ad una pesca massiccia corrisponde un consumo altrettanto massiccio, e più la domanda aumenta più le specie sono rare e i prezzi aumentano, generando un enorme giro di affari nel mercato della pesca che, come nel caso della caccia alla balena, attira economie sotterranee e criminali. La pesca del tonno rosso nel Mediterraneo è controllata da un organismo internazionale, l’ICCAT, International Commission for the Conservation of Atlantic Tunas, nonché dall’Unione Europea, che ne sanciscono limiti e condizioni. Ma una volta finita la stagione autorizzata per la pesca al tonno, non tutte le barche tornano al porto. I membri di Sea Shepherd ne sono stati testimoni lo scorso 17 giugno 2010, quando si sono imbattuti in due larghe reti al largo delle coste libiche, piene di tonni rossi catturati vivi per essere ingrossati e rivenduti poi sui mercati asiatici, non senza essere stati prima lavorati in porti franchi in modo da eliminare qualsiasi traccia relativa alla loro provenienza, rendendo cosi più complicati i controlli e l’applicazione delle regolamentazioni. Un lato oscuro dell’industria della pesca che è stato anche documentato dall’eccellente inchiesta di Sabrina Giannini per Report, “L’ultima mattanza”: il reportage evidenzia l’implicazione della mafia nell’industria peschiera nel sud Italia, dove alcuni porti sono interamente controllati dagli uomini delle cosche.

In conclusione, non si tratta di convincere della bontà dei metodi adottati da Sea Shepherd, quanto considerare con maggiore attenzione che la protezione dell’ambiente non necessita di nuove leggi, ma dell’applicazione di quelle esistenti. Solo così, infatti, si può sperare di frenare la folle corsa che porta all’estinzione di specie viventi e, nel medio-lungo periodo, al collasso dell’ecosistema nel suo complesso. E in questo senso, Paul Watson e la sua organizzazione da anni lottano per l’applicazione, l’esecuzione e l’implementazione del diritto del mare, internazionale e non. Citando il Dalai Lama, il fondatore di Sea Shepherd ama ripetere che “non vuoi fare del male al tuo nemico; ma se quest’ultimo si ostina a non capire, bisogna dargli la scossa necessaria per che si illumini”.

(scritto con Raffaella Tolicetti)