Le potenzialità economiche dei Balcani
Partiamo da una domanda semplice ma complessa: quale futuro aspetta i Balcani dal punto di vista economico? Consideriamo i quattro paesi di lingua serbocroata, ossia Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e Montenegro. Sono tutti paesi colpiti duramente dalla crisi, in quanto non possiedono centri produttivi competitivi e quindi sono estremamente ancorati all’economia europea; dalla fine della guerra al 2007 c’è stato un crescente ottimismo grazie allo sviluppo economico, ma la crisi arrivata con il 2008 ha spazzato via tutte le certezze. E per uscire dalla crisi servono manovre decise.
[ad]Guardiamo per prima la Croazia, il paese su cui sono puntati maggiormente gli occhi in quanto prossima all’ingresso nell’Unione Europea. Fino al 2007 ha avuto una crescita notevole, il PIL è cresciuto di circa il 5% all’anno per quasi 15 anni; ma l’anima della crescita è stato il turismo, un settore notevolmente redditizio ma anche notevolmente sensibile all’andamento dei mercati: se la situazione lavorativa è incerta, è più difficile che le famiglie optino per vacanze all’estero, anche se la Croazia può beneficiare di un cambio favorevole con l’euro che la pone in un’ottica di meta “low cost”: 1 € equivale a 7.5 Kune, e questo è un vantaggio per le aziende croate in quanto potrebbero esportare nell’area euro a prezzi competitivi. Con l’arrivo della crisi il PIL è calato per più di 2 anni, e solo nel 2011 è cresciuto di un debole 0.7%. La crisi ha generato anche indebitamento per lo Stato, ma sempre nel 2011 la situazione è migliorata: la Croazia nel 2011 ha avuto un surplus nel budget del 2.8% del PIL e il debito pubblico è sceso dal 58.2% al 43.9% del PIL, un dato che dovrebbe essere incoraggiante visto che, per fare un confronto, la Germania ha un debito pubblico poco superiore all’80% del PIL.
Questo calo del debito pubblico croato è stato aiutato principalmente dalla privatizzazione di alcune aziende statali, come la INA, quindi non andrebbe considerato propriamente un dato positivo, poiché il Governo avrebbe indubbiamente fatto meglio a ristrutturare internamente l’azienda per portarla nuovamente in attivo piuttosto che venderla.
Discorso un po’ diverso per la Bosnia: qui il problema è la mancanza di un forte governo centrale. La mancanza di coesione e le divisioni interne bloccano molte riforme, eppure nonostante il paese sia stato letteralmente devastato dalla guerra e nonostante nel 1995 la produzione industriale fosse appena il 20% di quella che era nel 1990, il Paese ha una situazione economica non così negativa. Il dato della disoccupazione è altissimo, si parla del 43%, ma è certamente gonfiato dato che moltissime persone lavorano in nero. In seguito alla crisi, i dati di crescita della Bosnia sono stati forse migliori della Croazia: dopo la contrazione del 2.9% nel 2009, nel 2010 il PIL è cresciuto dello 0.7% e nel 2011 di nuovo del 2.2%. Il Marco bosniaco (KM) ha un regime di cambio fisso con l’euro (1 € = 1.98 KM), ma le esportazioni sono facilitate dai costi bassi (principalmente dalla manodopera a basso prezzo). Comunque nel 2011 il deficit del budget statale è stato del 3.1% (estremamente alto) e il debito pubblico è salito dal 39.1% al 44%. Eppure anche la Bosnia ha buone possibilità. Il territorio bosniaco è ricco di risorse forestali ma anche di minerali, è di buona qualità e quindi adatto a coltivazioni e il paesaggio montuoso e la presenza di corsi d’acqua permetterebbero la costruzione di centrali idroelettriche; la Bosnia ha un ottimo sistema energetico. Il problema principale è che l’elevato numero di mine inesplose nel Paese impedisce e blocca lo sviluppo di gran parte del settore primario.
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