L’edizione di due settimane fa del settimanale tedesco Die Zeit, uscita prima della disastrosa sconfitta della CDU in Nordrhein-Westfalen, ha dedicato quattro pagine a un lungo ritratto di Angela Merkel, intitolato significativamente Wie lange noch?, ossia “fino a quando?”.
[ad]L’articolo, oltre a ripercorrere la storia del personaggio e le tappe della sua ascesa politica, tenta un’analisi di alcune caratteristiche personali, che assumono grande rilevanza in relazione a quello che si potrebbe definire il metodo Merkel nell’approccio alle questioni politiche e alla gestione del potere. Un metodo che si rivela evidentemente essere molto efficace, se è vero che Frau Merkel mantiene tuttora un vasto consenso fra la maggioranza della popolazione tedesca, nonostante un’impressionante serie di scandali, sconfitte elettorali e condizioni generali avverse.
Tuttavia, a uno sguardo esterno, proprio di chi viene da quei paesi “mediterranei” in cui die Eurokrise si è manifestata in forma esplicita e talvolta drammatica, la riflessione su questo metodo può offrire anche chiavi di lettura diverse.
Il metodo Merkel può essere assai efficace in circostanze normali, in quanto permette un rapidissimo adattamento e duttilità in relazione alle condizioni reali. I numerosi cambi di direzione politica (su nucleare a questione ambientale, impegno militare, sulla gestione della politica economica) dimostrano questa flessibilità della Cancelliera, che le permette di essere sempre in sintonia con i sentimenti dell’elettorato e con ciò che è reso più opportuno dai rapporti di forza. In altre parole la Merkel concepisce se stessa e la politica del suo partito come variabile strettamente dipendente. Questo va bene finché le circostanze presentano caratteristiche relativamente stabili, ovvero in tempi normali.
Ma quando, per qualche motivo si scatena una crisi, ovvero si accede a uno stato di eccezione, questo tipo di politica diventa deleteria in quanto non solo non agisce in direzione della stabilizzazione della situazione, ma contribuisce attivamente alla sua degenerazione e all’aumento del caos. Tanto più se che la mette in atto si trova in una posizione centrale, oggettivamente egemonica. Ma se chi dovrebbe esercitare l’egemonia si rifiuta di farlo, il risultato è un’anarchia potenziale.
[ad]Si dice spesso che, se il salvataggio iniziale della Grecia nel 2010 fosse stato prontamente e convintamente erogato, la crisi non sarebbe nemmeno nata, con un esborso infinitamente minore a quello, continuamente crescente, a cui siamo esposti ora. La crisi è nata come una crepa quasi invisibile, una minuscola frattura che si è progressivamente ingigantita fino a diventare un orrendo baratro. E qui entra in gioco il secondo attore di questa tragedia, i mercati, la cui interazione con la politica tedesca ha creato un connubbio micidiale. Se c’è una cosa che è odiata dai mercati, è l’incertezza. Avendo la politica tedesca ed europea sempre lasciato il dubbio che forse la Grecia avrebbe potuto non essere salvata, un’eventualità che all’inizio era assolutamente remota e inverosimile, come il crollo dell’Euro, si è progressivamente fatta strada ed ha assunto realtà e concretezza. Via via che la situazione evolveva la Merkel è stata progressivamente spinta dalle circostanze a intraprendere azioni di salvataggio, perchè ora la situazione lo richiedeva, lo giustificava. Ma, proprio per questo, le azioni intraprese erano sempre un passo indietro rispetto al necessario. Quello che i mercati volevano sentirsi dire, e cioè “difenderemo l’Euro a qualunque costo” era proprio quello che la Merkel, in questo molto rappresentativa di un certo sentire tedesco, non avrebbe mai e poi mai potuto dire. Realisticamente il dire questo si sarebbe tradotto poi in uno sforzo molto limitato, perchè sarebbe bastata la semplice dichiarazione a restaurare la fiducia perduta. Invece ciò che è sempre stato detto, ovvero “sì, difenderemo l’Euro, ma fino a un certo punto” ha spinto i mercati a cercare e sfidare ulteriormente quel punto.Si manifesta qui una sorta di horror vacui di fronte a un’assunzione di responsabilità che avrebbe valore politico e storico, prima che economico.
Alla radice di questo rifiuto sta una sfiducia nella forza della politica, vista più come camera di compensazione e mediazione di interessi e come tecnica di gestione del puro potere, che non come forza capace di plasmare la storia e costruire una realtà e una società nuove e diverse, oltre che interpretarle e dare loro voce.
Da questa sfiducia discende la visione legalistica dei trattati europei e una peculiare teoria della crisi come “pedagogia del terrore”, per cui solo sotto la spinta dell’emergenza, e col fiato dei mercati sul collo i paesi mediterranei sarebbero in grado di fare le “riforme”. Ma oltre un certo livello, la crisi riproduce solo se stessa e innesca pericolosi circoli viziosi.
L’ “Europa minima” non è più sostenibile. Se si vuole mantenerla bisogna avere il coraggio di una scelta vera e incondizionata a favore di una reale Europa politica.
Per questo Angela Merkel è inadatta a guidare l’Europa.