È confortante avere interrotto dallo scorso novembre il circo di rivelazioni mediatiche sulla vita discinta e rimbaudiana del presidente del consiglio italiano. Il cambio di guardia ha fatto sicuramente bene all’immagine dell’Italia nelle cancellerie di mezzo mondo, sui mercati e nelle opinioni pubbliche. Mario Monti ha imposto sacrifici prevalentemente fiscali agli italiani per centrare nel 2013 l’obiettivo del pareggio e avvicinare i parametri ancor più stringenti del fiscal compact.
[ad]Nonostante ciò lo spread fra i nostri Btp e i bund tedeschi sta tornando attorno ai 500 punti, una soglia indubbiamente di criticità e i Credit Default Swap (vedi il grafico: http://www.bloomberg.com/quote/CITLY1U5:IND) fruttano agli investitori persino un guadagno del 258% su base annua e sono tornati sui livelli di novembre, quando l’Italia sfiorò per la seconda volta in vent’anni il default.
Cos’è successo nel frattempo? Riprendiamo una recente sortita del leader del Pdl, che pur non essendo più capo del governo resta un ottimo termometro della febbre italiana.
Silvio Berlusconi ha interrotto un periodo di relativa calma comunicativa lanciando uno dei suoi tipici messaggi per sparigliare le carte. “Usiamo la nostra zecca per stampare banconote al posto della Bce” è stata la sua prolusione davanti al gruppo parlamentare del Pdl. Non potendo riorganizzare la sua offerta politica né mantenere la promessa di mettere in pista la “più grossa novità” in Italia – che è bene ricordarlo non c’entra con la riproposizione del semipresidenzialismo – l’ex premier ha visto giusto di lanciare una provocazione di carattere economico. Poco di male diranno in molti. Alle uscite di Berlusconi in ogni settore toccato dallo Stato abbiamo fatto il callo in questi 18 anni della sua parabola politica. E ha gioco facile un economista come Giacomo Vaciago a ironizzare sulla preparazione culturale di Berlusconi: “Pensa che le banconote che dava normalmente alle escort rappresentino tutta la moneta in circolazione”. Tanto che a poche ore dal lancio della notizia sulla rete ha cominciato a tenere banco l’accostamento fra l’ex premier e Totò De Curtiis, anche lui impegnato a stampare banconote in proprio nel film “La banda degli onesti”.
Ironia a parte nel Pdl sta diventando un chiodo fisso l’idea che la Banca Centrale Europea debba prendere ad esempio Ben Barnanke della Fed e utilizzare una politica monetaria di grande stimolo, magari mettendo sul mercato svariati miliardi di euro in numerose tranche di quei quantitative easing, che in America hanno inondato i mercati di liquidità. E l’uscita di Berlusconi è stata così poco estemporanea da essere stata preceduta lunedì pomeriggio a Prato dal segretario del Pdl Angelino Alfano nella sede di Confindustria. “Vanno ridefiniti i compiti della Bce per permetterle di fare come la Fed, che in tempi di crisi ha stampato banconote” sono state le parole usate dal segretario, che al contempo ha ribadito la sua adesione ad una ricetta liberale per tornare alla crescita.
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[ad]Non è questa la sede per dirimere l’antica controversia fra neomonetaristi e neokeynesiani sul ruolo delle Banche centrali e sul ricorso a politiche espansive della moneta per sostenere la domanda. Qui però possiamo dire che il Pdl, proiettandosi ancora con un’impostazione liberale, con un minimo di coerenza sarebbe chiamato a sostenere tesi rigoriste improntate ad un neomentarismo. Il contario pertanto della proposta Alfano-Berlusconi.
Allora perché propongono – con semplificazioni brutali – una simile via d’uscita? I mercati e gli osservatori internazionali un’idea se la sono fatta e fanno coincidere queste ricette con delle scorciatoie. Il Pdl d’altronde ben poco ha fatto per superare resistenze alle riforme economiche e ai tagli della spesa pubblica.
Ovviamente questo si paga in fatto di credibilità internazionale e di fiducia che è possibile instillare nei grandi investitori e nei principali soggetti economici su scala globale. La furbata per quanto amatissimo sport nostrano all’estero viene giudicata di cattivo gusto.
Potrà risultare ostico dopo averlo osannato per la sua diversa statura intellettuale e da uomo pubblico, ma questa sostanziale irresolutezza e ricerca di un compromesso in scelte facili e pasticciate è passata intatta nelle mani di Mario Monti.
E gli esempi sono abbondati dal novembre scorso. C’è da liberalizzare le professioni e da togliere molti freni alla concorrenza creati dagli ordini? Al massimo si permette agli esercizi commerciali di stare aperti 24 ore su 24. Una piccola conquista di libertà economica, ma nulla in confronto allo strapotere degli ordini di notai, avvocati, commercialisti e – naturalmente – giornalisti. I costi della politica vanno ridotti? I presidenti delle Camere si prendono un impegno, convocano una commissione ad hoc e tutto finisce impantanato. La spesa pubblica va ridotta per consentire di raggiungere costantemente un pareggio di bilancio? Nessun problema, si aumenta la pressione fiscale. Il mercato del lavoro ha bisogno di una migliore competitività? Ecco arrivare allora l’ennesimo compromesso. Così, per avere un incremento minimo di flessibilità in uscita nelle grandi imprese si irrigidiscono le piccole imprese, proponendo l’introduzione dell’articolo 18 nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. E varrebbe la pena di scommettere che il solito cattivo genio italiano si metterà in moto per sterillizzare i risparmi potenziali comunicati dal sottosegretario Giarda con la spending review.
Tutte queste ricette ideali di un impostazione liberale sono facilmente ribaltabili. Un convinto socialdemocratico con simpatie keynesiane andrebbe in Europa e chiederebbe gli eurobond, la ritrattazione del fiscal compact e sosterrebbe la volontà di mettere in moto con il deficit spending un’azione di stimolo all’economia.
Benissimo. Il problema di questa tesi è che prima Berlusconi e ora Monti hanno accettato delle regole del gioco di rigore ben lontane da Keynes, per quanto non del tutto vicine a Friedman. Si sono conquistati pertanto un briciolo di fiducia nei mercati salvo poi eroderlo nel tempo infrangendo le stesse regole che sembravano avere accettato Berlusconi ha messo nel mezzo mille anomalie e una vita dissoluta, Monti è stato costretto dal Parlamento a frenare molti degli interventi per la crescita e la stabilizzazione del paese annunciati inizialmente.
Il risultato si sta vedendo proprio nei Credit Default Swap. Finita la luna di miele durata nei primi cento giorni il governo Monti – in un contesto internazionale persino peggiore di quando si insediò – fa fatica a resistere alle spinte speculative e alle scommesse sul nostro fallimento dei Credit Default Swap. Dovrebbe chiedersi il perché. Forse promettere ieri e ritrattare oggi, proponendo magari una via d’uscita di compromesso o – peggio ancora – una scorciatoia sta mettendo di nuovo in crisi la credibilità dell’Italia a livello globale?