Pd e Pdl fra primarie e vitamine per la crescita

Uno sparigliamento e una conservazione. Dalla direzione del Pd e dall’ufficio di presidenza del Pdl l’attesa è di esiti asimmetrici. Il segretario dei democrat Pierluigi Bersani pur non mancando di rimbrottare la retorica dei rottamatori, fra meno di 24 ore potrebbe in un sol colpo annunciare la convocazione di primarie aperte – da stabilire se di coalizione o di partito – e la propria candidatura per la premiership. In un colpo solo verrebbe incontro alle istanze di Matteo Renzi e potrebbe spuntare in partenza una delle armi della campagna elettorale del sindaco di Firenze, la contrapposizione fra l’outsider spavaldo che vorrebbe consegnare ogni potere di scelta al cittadino-elettore defraudato del suo potere di scelta dall’uomo dell’establishment.

[ad]Con Bersani pronto, quindi, ad anticipare il Big Bang del rinnovamento – il Corriere della Sera accredita persino la possibilità di una non ricandidatura di D’Alema in Parlamento –, il Pdl ha il problema opposto. Il leader-fondatore che vorrebbe smantellare il partito che lui stesso ha creato. “Facciamo delle liste civiche” sembra essere la sua intenzione, scatenando l’ira del silente presidente del Senato Renato Schifani che l’ha bollato come “grillismo di destra” in una lettera al Foglio. In sede di ufficio di presidenza il segretario Alfano dovrà disinnescare la fascinazione verso la creazione di un network di liste civiche con insegne differenti, ma candidati selezionati centralmente. Il tempo delle alchimie e della giusta organizzazione dell’offerta politica non potrà, del resto, occupare troppe settimane. Ben presto Bersani, Renzi o Vendola e dall’altra parte Alfano dovranno misurarsi con un’agenda economica globale, che risucchia l’intero discorso pubblico.

E al contrario del poco clamore offerto dalle cronache i recenti interventi di Obama in direzione dell’Europa e la restituzione della pariglia da parte del governatore della Bce Mario Draghi sono passaggi molto densi dell’attualità politica. “Fate come noi” è l’invito del presidente democratico, che pur dotato di una visione internazionalista teme soprattutto i contraccolpi di un collasso dell’Europa sull’andamento dell’economia americana e – inevitabilmente – sulla campagna per le elezioni di novembre. Ma anche con i dovuti calcoli da retrobottega l’azione di pressione sulla governance europea squarcia il velo del puro rigore, l’unico punto all’ordine del giorno della politica comunitaria, sotto l’egida della cancelliera tedesca Angela Merkel, ben sublimato dal fiscal compact. Fare all’americana significa apprendere un insegnamento basilare di questo quadriennio di depressione: per ripagare alti debiti non basta tagliare i costi, ma produrre molta più ricchezza. Fuori dalla creazione di maggiore ricchezza non c’è salvezza. 

Tanto da cominciare a saldare larghi segmenti di opinione pubblica di mezza Europa in favore di vitamine sviluppiste. La mobilitazione in molte piazze dei paesi comunitari di sabato per chiedere di andare oltre l’austerity, salvando la Grecia e la sua permanenza in Europa. Un controcanto ben lontano dalla demagogia di chi vorrebbe abbandonare la moneta unica per tornare all’oramai antistorico predominio dell’ideologia dello Stato-nazione.