La severa lezione delle presidenziali americane
La severa lezione delle presidenziali americane
Con l’intervista a Larry Sabato anche gli osservatori italiani di politica americana possono rafforzare una convinzione, che già si palpava da settimane attraverso i sondaggi provenienti dagli States: le elezioni presidenziali non saranno una passeggiata. Il referendum che Obama subirà in quanto comandante in capo uscente sarà meno scontato di quanto si prospettava a gennaio, quando dalle primarie dei repubblicani cominciava ad emergere un Mitt Romney inevitabile per il Gop e penalizzato dalla campagna negativa degli altri candidati nel confronto diretto col presidente.
[ad]Ora si trova staccato di un solo punto percentuale secondo un’agenzia tradizionalmente affidabile come Gallup.
La causa è ben nota: dalla grande recessione gli Stati Uniti non sono ancora pienamente usciti e con una ripresa macilenta senza posti di lavoro si crea la configurazione per un rovesciamento alla Casa Bianca. Vale la pena di ricordare, che gli americani attribuiranno a Obama di non aver cambiato – come aveva promesso – le cose a Washington e non mancheranno i motivi di delusione per aver lasciato immacolato il patriot Act per la lotta al terrorismo. Magari sulla stessa riforma sanitaria, specie se dovesse essere bocciata dalla Corte Suprema nella sentenza attesa per la fine del mese, potrebbe essergli attribuita la responsabilità di aver diviso ideologicamente la nazione.
Succederà tutto questo, probabilmente, ma superando per un momento il merito della contesa dovremmo inquadrare dal punto di vista della tenuta della governabilità dei paesi Nord-Occidentale pensando ai frutti amari della depressione.
E mettendo insieme i paesi più sviluppati qualche preoccupazione dovrebbe sorgere.
In Francia, Sarkozy è stato disarcionato e dopo due legislature monopolizzate dall’Ump i socialisti si avviano a controllare la maggioranza dell’Assemblea Nazionale. A Parigi spezzare l’eccessiva continuità è stata cosa ben salutare e rafforza la democrazia nell’alternanza. Tutto bene.
Come avvenuto d’altro canto in Spagna col ritorno del PP di Rajoy. Da Madrid al tempo stesso suona il primo campanello d’allarme. Il primo ministro ha speso in pochi mesi buona parte del suo capitale elettorale e, come segnalato in un recente articolo di Enrico Peroni, rischia il collasso insieme al suo partito.
In Germania, Angela Merkel è largamente impopolare e se si dovesse ripresentare quest’anno agli elettori tornerebbe in un batter baleno all’opposizione. Idem per David Cameron in Gran Bretagna.
L’Italia, invece, vivendo una fase di “stagnazione insostenibile” secondo la definizione di Roger Abravanel potrebbe in questa nostra individuazione di una linea di tendenza sulla governabilità aver svolto il ruolo antesignano. Non si può dare certo la colpa alle leggi elettorali o al parlamentarismo se dal 1994 gli equilibri elettorali sono cambiati ad ogni giro. Essere stati quasi sempre in crisi ha reso in breve tempo sgradevole ogni governo. Fino a far diventare l’alternanza troppo alternata. Una legislatura al centrodestra, una legislatura al centrosinistra dal 1994 fino al 2008 e il 2013 non intende fare eccezione.
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