Recensione de “Le cose che ho imparato” di Gianni Riotta

Gianni Riotta, giornalista e scrittore, è nato a Palermo nel 1954. Figlio di Salvatore, redattore del Giornale di Sicilia, esordisce prestissimo nel campo del giornalismo pubblicando articoli per Il Manifesto e come collaboratore delle pagini culturali del Giornale di Sicilia.

[ad]Laureatosi in filosofia presso l’Università di Palermo si trasferisce a Roma dove inizia a collaborare con il Corriere della Sera come corrispondente da New York. Ha collaborato con le più importanti testate giornalistiche americane tra le quali spiccano il Washington Post ed il New York Times.

Nel 2006 ricopre il ruolo di Direttore del TG1 fino al marzo del 2009 quando assume la direzione de “Il Sole 24 ore” che lascia nel Marzo del 2011.

Il suo ultimo libro “Le cose che ho imparato” è una sorta di autobiografia dell’autore. In esso troviamo tutte le esperienze di vita, accademiche, didattiche, di giornalismo e di incontri che ha compiuto dall’infanzia ad oggi. Dai ricordi vivi dei suoi anni palermitani, dove si staglia autorevole ed amorevole la figura del padre, agli odori, sapori e parole ormai perduti, agli ultimi anni passati con le truppe americane di stanza in Afghanistan ed Iraq.

Per esprimere il libro con una parola userei “difficile”. Non è il classico libro che vedremo posato su un telo da mare o su un lettino quest’estate perché il tipo di informazioni in esso contenute non permettono al lettore di approcciarvisi con una mente distratta od occupata. Il libro necessita di una mente libera e concentrata alla lettura; Riotta passa, con la disinvoltura di chi è abituato a scrivere, da nozioni semplici a più complesse, da argomenti faceti, come quando da bambino insieme a dei suoi amici andavano in cerca di bombe inesplose della II Guerra Mondiale, a quelli più seri, ad esempio la paura della mafia che, a quei tempi, utilizzava come autobombe le bellissime e fiammanti Giuliette e dove,una di esse, fece strage a Ciaculli (dove morirono nel 1963 il tenente dei carabinieri Malausa, i marescialli Corrao e Vaccaro, gli appuntati Altomare e Fardelli, il maresciallo dell’esercito Nucio ed il soldato Ciacci).

 

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[ad]Dal libro si evince una voglia, mai sopita, di Sicilia. Nonostante gli anni passati all’estero e i riconoscimenti ottenuti, Riotta pensa sempre con nostalgia agli anni ’60 siciliani. Sicuramente il far parte di una famiglia benestante lo ha tenuto al riparo dalla miseria e dalla violenza presente in quegli anni a Palermo, ma questo non ha impedito allo scrittore di fare le sue esperienze di vita, come quella di attraversare un quartiere di Palermo “nemico”, perché tenuto da una “banda” rivale di ragazzini, a testa alta  e sotto una fitta sassaiola.

La difesa tenace della sicilianità, la voglia di difenderla non per partito preso ma per meriti oggettivi, la necessità di ricordare Pirandello o Sciascia come scrittori europei e non siciliani, la voglia di sapere nel senso più alto del termine, la  strenuità con cui cita, per cercare di salvarli dall’oblio, i proverbi ed i modi di dire  anche in questo terzo millennio così avanzato, emerge in ogni pagina.

Riotta ci parla senza peli sulla lingua di sé e della sua famiglia, addirittura citando una sua zia che avrebbe avuto un “incontro” con Gabriele D’Annunzio, facendoci vedere non la vita di un giornalista della carta stampata e televisivo, ma quella di una persona normale che, con molto impegno e sacrificio, è riuscito ad arrivare fino in cima alla sua professione senza mai dimenticare le sue origini.