Perché privatizzare sarebbe un errore
Perché privatizzare sarebbe un errore
Il dibattito sulle privatizzazioni in Italia è come un fiume carsico, che si inabissa e poi periodicamente rispunta, con più frequenza ovviamente nei periodi di crisi.
[ad]Se ne è parlato anche di recente, in occasione del Decreto Sviluppo, in seguito alla dichiarazione di Monti secondo cui esso avrebbe contenuto misure di dimissioni. Alla fine è risultato trattarsi sopratutto di dimissioni del patrimonio immobiliare e della cessione di tre aziende (Sace, Fintecna e Simest) che verranno però cedute alla Cassa Depositi e Prestiti, ottenendo così benefici per il calcolo del debito pubblico ma mantenendole tuttavia nel perimetro del pubblico (il debito delle Casse depositi e Prestiti, secondo una direttiva europea, non viene calcolato nel conteggio del debito degli Stati).
Tuttavia il vero obiettivo a cui mirano i teorici delle liberalizzazioni è altro, ovvero la cessione della quota pubblica delle ultime tre grandi aziende di Stato, ovvero Eni, Enel e Finmeccanica. Si tratta di aziende che operano in settori di fondamentale importanza. Eni è il quinto gruppo petrolifero mondiale per giro d’affari, attivo anche nei settori del gas naturale, della petrolchimica, della generazione e produzione di energia elettrica e dell’ingegneria e costruzioni (in particolare attraverso la controllata Saipem, specializzata nella realizzazione di infrastrutture per l’industria petrolifera). Enel è il primo operatore elettrico d’Italia e il secondo in Europa, attivo anche in America Latina e in Nord America ed opera anche nel settore del gas naturale. Finmeccanica è una conglomerata attiva principalmente nei settori della difesa, dell’areonautica, dell’aerospazio, ma anche dell’energia e dei trasporti. Al netto dei recenti scandali rimane comunque un’operatore di rilevanza mondiale nell’ambito del suo core business.
Date le caratteristiche delle aziende descritte, non si avrebbe certo difficoltà a trovare un compratore. Esistono tuttavia molte ragioni per le quali una tale scelta sarebbe da considerare assai poco lungimirante e avveduta e sopratutto contraria all’interesse nazionale.
La prima e immediata ragione è evidente e per rendersene conto basta guardare i corsi di borsa delle aziende in questione. Eni, alla chiusura di venerdì 15 giugno quotava 16,23 euro, rispetto a massimi storici nel 2007 di oltre 27. Enel quotava 2,48, rispetto a massimi superiori a 8. Infine Finmeccanica, il caso più clamoroso, quotava 2,93 rispetto a massimi oltre 20 nel 2007. E’ dunque chiaro che vendere in questo momento sarebbe una scelta miope anche solo per ragioni strettamente finanziarie (come del resto ha detto ripetutamente il premier Monti).
C’è poi un’altra ragione più generale. Ci troviamo qui di fronte ad aziende che, al netto di ristrutturazioni necessarie, sopratutto nel caso di Finmeccanica, concorrono con successo sui mercati mondiali e nell’ultimo decennio hanno hanno sistematicamente generato utili e pagato generosi dividendi agli azionisti, tra cui, ovviamente, il Tesoro italiano. Basti pensare, ad esempio, che nel 2007 lo Stato Italiano ha incassato, sia grazie alle partecipazioni dirette, sia grazie a quelle attraverso la Cdp, quasi 3 miliardi di euro solo per Eni, Enel e Finmeccanica. Si tratta di un reddito variabile a seconda della congiuntura economica ma fisso, che, qualora venisse a mancare, andrebbe coperto con un aumento della pressione fiscale o altre fonti di entrata. I sostenitori liberisti delle privatizzazioni, di solito così preoccupati delle “generazioni future” e di una gestione virtuosa nel presente a vantaggio del futuro, in questo caso chiudono insolitamente un occhio, cercando di incassare un effimero vantaggio oggi, rinunciando a una rendita sostanzialmente perpetua domani…
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