Angela Merkel, o dei pericoli del senso comune
La politica di Angela Merkel si regge su una serie di principi che sembrano assolutamente di buon senso. Il suo insistere su tali principi appare a prima vista come la legittima fermezza di chi non vuole cedere a indebite richieste di ammorbidimento e di lassismo di tali principi.
[ad]Invece, a ben vedere, questa crisi costituisce un classico caso di studio per dimostrare l’assoluta inadeguatezza del “buon senso” nell’affrontare situazioni politiche (quando si parla della Politica con la “p” maiuscola, quella che riguarda le svolte storiche e non la semplice amministrazione dell’esistente) di grande portata. In analogia col concetto di “fallimenti del mercato” bisognerebbe in questo caso coniare il concetto di “fallimenti del senso comune“. Per illustrare questo concetto ecco un piccolo vademecum di principi cardine della politica tedesca, con relativa confutazione.
- Ognuno deve per prima cosa “mettere in ordine la casa”: sembra un principio ragionevole. Se non si tengono in ordine i bilanci ogni successiva iniziativa rischia di essere minata in partenza.
In realtà, vediamo già qui all’opera una delle principali fallacie che stanno alla base del ragionamento tedesco: l’equiparazione degli Stati a famiglie o individui. A differenza di queste unità macroeconomiche, tuttavia, che possono considerare la “congiuntura” semplicemente come un dato di fatto, come un elemento esterno, gli Stati hanno una dimensione tale per cui le loro stesse scelte influiscono sulla congiuntura stessa. E sopratutto ogni stato non può decidere isolatamente le proprie politiche, ma deve tenere conto di cosa fanno gli altri. Se tutti gli Stati tagliano contemporaneamente, questo avrà un effetto marcatamente depressivo, che a sua volta peggiorerà i bilanci, in una spirale potenzialmente infinita. - La crisi è causata dall’eccessivo debito pubblico degli Stati periferici, il quale deriva dalle scelte poco virtuose dei governi: è evidentemente falso. Escludendo temporaneamente il caso della Grecia, Irlanda e Spagna erano, prima della crisi, Stati con un debito pubblico assolutamente contenuto. L’esplosione dei rapporti deficit/pil deriva da: 1) la recessione, che comprime le entrate fiscali, aumenta le spese per sussidi, e, comprime per l’appunto il pil. 2) i salvataggi bancari che si sono dovuti effettuare.
L’Italia, pur avendo storicamente un alto debito pubblico, non ha avuto problemi con il suo debito per molti anni. Il caso del Giappone poi basta a smentire che, di per sé, un alto debito pubblico costituisca un problema.
I problemi sono altri. In primo luogo ciò che conta non è il debito in valore assoluto (che è naturale che tenda a crescere) ma il rapporto deficit/pil. Che, essendo un rapporto ovviamente cresce al diminuire del PIL. Quindi molto più importante del valore assoluto del debito sono le prospettive di crescita dell’economia. E’ naturale che, se tali prospettive vengono strozzate con aumenti di tasse e tagli alla spesa (sì, anche i tagli alla spesa hanno effetti recessivi), la “fiducia” dei mercati non possa tornare. Del resto i mercati sono uno dei fattori della crisi. Uno dei fattori principali della sostenibilità di un debito è il livello degli interessi che si debbono pagare su quel debito. E’ ovvio che se gli interessi si alzano, le prospettive di sostenibilità si deteriorano e di conseguenza gli interessi si alzano ulteriormente. In questi termini gli attacchi speculativi creano una self fulfilling prophecy. Questo circolo vizioso può essere spezzato da un solo attore, la banca centrale, e dal suo impegno ad acquistare illimitatamente titoli di stato dei paesi in crisi. Questo solo annuncio fa sì che gli operatori tornino a comprare i titoli, causa un crollo dei tassi di interesse e dunque ripristina la sostenibilità del debito (con ogni probabilità, senza nemmeno che la banca centrale debba effettuare consistenti acquisti). - Una crisi del debito non si cura con altro debito: In primo luogo si presuppone che si tratti effettivamente di una crisi del debito il che è discutibile come detto sopra. In secondo luogo si commette un altro errore, ovvero l’applicazione di un principio (sulla cui validità si può discutere e avere opinioni diverse) in maniera astratta e non riguardosa delle conseguenze. Anche volendo ammettere che a lungo termine la riduzione del debito possa essere desiderabile, il volerlo fare in un momento di crisi, potenzialmente recessivo, è deleterio. Sarebbe meglio accettare temporaneamente un aumento del debito che consenta una ripartenza dell’economia, per poter poi in circostanze di normalità avviare, con i tempi e le modalità opportune, un percorso graduale di riduzione. Inoltre parlare di “debito” è volutamente generico e fuorviante. Non tutto il debito è uguale. Un conto è il debito per consumi e un conto è il debito per investimenti. Il secondo è debito che pone le premesse per una crescita futura. Naturalmente anche fra gli investimenti si tratta di prendere le decisioni giuste. L’economia italiana ha sofferto negli ultimi vent’anni di una drammatica carenza di investimenti. Se si riuscisse a recuperare il terreno perduto ci sarebbero grandi prospettive di crescita. Ma è comprensibile che la Germania non sia desiderosa di avere un concorrente forte nell’eurozona.
- Le riforme strutturali dell’Agenda 2010 di Schröder hanno ridato competitività alla Germania. Dunque anche gli altri paesi devono fare lo stesso: In primo luogo la Germania ha una struttura produttiva che presenta caratteristiche differenti rispetto ad altri paesi della zona euro. Non è detto che ciò che va bene per uno vada astrattamente bene anche per gli altri. In secondo luogo la Germania ha fatto tali riforme in un momento espansivo dell’economia mondiale, in cui l’effetto sulla domanda interna della compressione salariale poteva essere compensato da una domanda globale in espansione e, in particolare, della quota delle esportazioni verso gli altri paesi dell’Eurozona. Quindi il “vizio” dei suppostamente spendaccioni paesi meridionali ha permesso la “virtù” tedesca. Se contemporaneamente anche gli altri paesi avessero fatto ciò che faceva la Germania, probabilmente il “miracolo” tedesco non sarebbe stato possibile.