Quale Europa?
L’Europa è come la pace nel mondo, la giustizia, la libertà: a parole tutti sono a favore dell’Europa. Quando si tratta però di scavare sotto la parola cosa ciascuno intenda veramente per “Europa”, sotto la concordia retorica emerge una babele di idee e di visioni, dove chiunque ha la sua Europa personale, ritagliata su misura.
[ad]Di solito per “vendere” l’Europa si racconta la storia di Altiero Spinelli, della sua intuizione che solo attraverso un’unità politica del continente si sarebbe potuta evitare durevolmente una nuova ricaduta nelle guerre e nelle divisioni che per secoli l’avevano segnato. E in questo quadro agiografico, idealmente accompagnato dall’Inno alla gioia di Beethoven, si citano poi i nomi di De Gasperi, Adenauer, Schumann, aggiungendo poi, come se questa serie costituisse un’ininterrotta continuità ideale, personaggi come Jean Monnet, Jacques Delors, oltre a François Mitterand ed Helmut Kohl (in genere Craxi e Andreotti vengono omessi perché stonano).
La verità è che questo pantheon ideale costituisce molto più una ricostruzione ex post che non una concreta realtà storica. Dietro il processo di unificazione ci sono interessi e sopratutto idee e culture politiche molto differenti. Il costituire l’Europa una formazione di compromesso, che si fonda su una sistematica ambiguità riguardo agli scopi ultimi che l’unione stessa deve perseguire, dà origine ad una serie di nodi, che stanno venendo alla luce in maniera drammatica nella presente crisi.
L’Europa ha sempre oscillato tra un programma massimo e uno minimo. Quello massimo, il federalismo di Spinelli appunto, prevedeva la costituzione di una vera Costituente europea eletta dai popoli e una sostanziale cessione di sovranità da parte degli Stati alle istituzioni che questa costituente avrebbe creato. Tuttavia questo programma è rimasto più nell’ambito del mito che non della realizzazione pratica e una tale stagione costituente, con il necessario dibattito pubblico, il coinvolgimento delle opinioni pubbliche e il grande sforzo di elaborazione di una cultura comune che avrebbe richiesto, non è mai avvenuto. E’ stato invece spesso usato, sopratutto nella prima fase dell’integrazione, il metodo minimo, ovvero quello della collaborazione intergovernativa, degli accordi diplomatici siglati da Stati sovrani e indipendenti.
Tutto sommato entrambi questi metodi possono essere criticati o condivisi ma presentano una loro coerenza e validità. Tuttavia buona parte dell’integrazione europea avvenuta principalmente dagli anni Ottanta ad oggi è stata ispirata a un altro metodo, a una terza via ibrida, che affonda le sue radici nel funzionalismo teorizzato da Jean Monnet. L’idea è che intanto, prima che si creino le condizioni per una profonda integrazione politica (rinviata in un’orizzonte lontano), devono venir messe in comune alcune competenze minori, di carattere tecnico.
Questa impostazione si afferma su larga scala (negli anni Ottanta e Novanta) contemporaneamente a una profonda crisi della politica, al venir meno della fiducia nella sua efficacia e necessità. Si teorizza la fine dello Stato nazionale, la fine delle ideologie, l’idea che la politica debba limitarsi alla pura amministrazione dell’esistente. Di conseguenza il campo delle competenze tecniche si allarga sempre di più, anche grazie al contemporaneo affermarsi in campo economico delle idee neoliberiste e monetariste, che vedono nell’intervento della politica nell’economia più una fonte di problemi che non di soluzioni.
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