Srebrenica, inflitti 142 anni di prigione ai carnefici. Ma a Mladic si intitolano strade

Srebrenica

Il tribunale della Bosnia Erzegovina ha emesso la condanna più grande della sua storia: 142 anni di prigione, inflitti a quattro imputati per crimini contro l’umanità, compiuti nel luglio ’95 nella municipalità di Srebrenica.

[ad]La sentenza di primo grado emessa dai giudici della più alta corte bosniaco-erzegovese condanna gli imputati Stanko Kojić a 43 anni, Franc Kos e Zoran Goronja a 40 anni e Vlastimir Golijan a 19. Ad oggi, rappresenta la più alta pena espressa da questo tribunale in una singola fattispecie.

Le responsabilità a loro imputate rientrano nella cornice delle violenze degli ultimi giorni della guerra, quando nel luglio ’95, nella Bosnia orientale, venne compiuto il più grande crimine sul suolo europeo dalla fine della seconda guerra mondiale: il genocidio di Srebrenica. In particolare, i quattro imputati del caso “Kos e altri” sono stati condannati per la fucilazione sommaria di un gruppo di circa 800 tra ragazzi e uomini “bosgnacchi” nella zona di Branjevo, nel comune di Zvornik. I quattro sono stati tutti identificati come appartenenti al decimo distaccamento del comando generale dell’esercito della Republika Srpska, a capo del quale vi era lo stesso Franc Kos. La pena inferiore di anni 19 inflitta a Golijan è stata giustificata dalla corte in virtù del fatto che egli al momento dell’arruolamento era minorenne e al momento dei fatti non aveva che vent’anni.

Nonostante la pesantezza e la singolarità della pena, la sentenza non ha accontentato né l’associazione “Madri di Srebrenica e Žepa”, costituitesi parte civile al processo, né il procuratore che infatti richiedeva che i quattro venissero giudicati per genocidio. Così, il portavoce della procura, Boris Grubešić, ha commentato l’esito della sentenza: “continueremo a credere che si tratti del reato di genocidio, o almeno di collaborazione ad esso, così che quando otterremo una copia scritta della sentenza faremo appello per la qualificazione del reato e cercheremo una condanna per la fattispecie di genocidio”.

Nello stesso giorno, a centinaia di chilometri di distanza, nella regione autonoma serba della Vojvodina, a Nova Pazova, è stata “denunciata” la presenza di una strada intitolata a Ratko Mladić, il generale dell’esercito della Republika Srpska, sotto processo all’Aja in qualità di indiziato numero uno proprio per i tragici episodi di Srebrenica. Secondo quanto riportato dal quotidiano serbo “Alo!” infatti, i residenti di tale via riceverebbero bollette e conti all’indirizzo “TKZ. Ratka Mladića” (letteralmente “c.d. Via Ratko Mladić”). Il quotidiano riporta anche le parole del prete della chiesa ortodossa serba “padre Hrista”, famoso al pubblico per essere stato accusato dall’attivista Nataša Kandić per aver dato la benedizione al gruppo paramilitare degli “Scorpioni” (responsabile proprio per gli eccidi di Srebrenica).

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[ad]Padre Hrista, che rientra anche tra coloro che hanno battezzato la via in questione, sostiene di “non vedere problemi nel chiamare in tal modo la strada, in quanto questa è una decisione del popolo, quello stesso popolo che è scappato da là [da Srebrenica ndr]”. Tra gli abitanti di questa strada vi è chi sostiene che tale toponomastica risalga al periodo dei bombardamenti del ’99. Nonostante non si tratti di un nome ufficiale, anche “Plan Plus” (il “google maps” serbo) riporta tale indicazione, e tra i residenti molti hanno dichiarato che vorrebbero tale indirizzo anche sulla propria carta d’identità.

Nonostante i due episodi non abbiano legame alcuno, essi sono uniti da una considerazione comune. Srebrenica e Nova Pazova, due piccolissime città, così lontane adesso ma così vicine un tempo: una tristemente famosa per un massacro, l’altra per una toponomastica “bizzarra”. Eppure, quello che esse condividono non è soltanto il richiamo ai tragici eventi della guerra, ma anche e soprattutto l’assurda riconferma di una storia che continuamente si spacca in due, in l’una e l’altra versione: quella di chi ha sofferto e quella di chi nega o giustifica tali sofferenze.

Da EastJournal

di Giorgio Fruscione