Può la politica essere una professione?
Uno degli effetti forse più contradditori e controversi dell’ondata di indignazione e di antipolitica montata in concomitanza con la crisi finanziaria ed economica degli ultimi anni è la generalizzazione dell’ostilità verso una classe politica e dirigente inadeguata alla classe politica e dirigenziale in quanto tale.
[ad]Anche in virtù della progressiva chiusura a riccio della “Casta” su se stessa e sui propri privilegi, si è sviluppata una vera e propria ostilità rivolta non tanto – o non solo – verso i singoli politici, ma piuttosto verso il ruolo in quanto tale del politico, dell’eletto, del rappresentante. I fallimenti di chi ha, nel corso degli anni, governato il Paese, si sono tradotti non già nella semplice messa in discussione delle persone fin qui alla guida dell’Italia, ma della struttura stessa della nostra democrazia.
L’attacco frontale più diretto rivolto alla figura del politico di professione – espressione che negli anni ha di per sé assunto una connotazione via via più negativa – riguarda il tetto al numero di mandati in una qualsiasi carica elettiva, uno dei cavalli di battaglia del trasversale partito di chi, in buona fede o meno, chiede un maggiore rinnovamento della classe politica del Paese.
Rottamatori, formattatori, grillini, tutti promettono una cosa soltanto: un limite al mandato dei parlamentari, un vincolo che impedisca a chi ha già svolto un determinato numero di mandati di presentarsi ancora come candidato alle elezioni.
Di per sé la richiesta nasce da esigenze legittime: il bisogno di rinnovamento della classe politica italiana è al di là di ogni evidenza, e la necessità di allontanare dalle poltrone del potere persone che hanno fatto cattivo uso della cosa pubblica è oggettivamente impellente.
Ciò che spesso non viene presentato all’opinione pubblica è il modo di fare politica che nascerebbe una volta superata l’attuale fase emergenziale, un mondo nuovo su cui forse occorrerebbe effettuare alcune valutazioni.
Porre un vincolo al numero di mandati, o in maniera ancora più stringente al numero di presentazioni a consultazioni per cariche elettive, significa distruggere la figura del politico: la carriera del politico, per quanto riguarda i ruoli amministrativi, sarebbe un’attività a termine, limitata ad una decina o ad una quindicina d’anni, lasciando come attività politica per la vita soltanto la militanza di partito e di conseguenza la permanenza in ruoli amministrativi all’interno delle formazioni politiche. Se da un lato questo garantisce un adeguato ricambio alla classe dirigente del Paese, dall’altro solleva una serie di punti negativi sui quali è opportuno soffermarsi.
La prima obiezione al tetto ai mandati è di natura puramente giuridica, in quanto costituisce un limite al diritto di elettorato passivo: un conto è se il limite ai mandati è inserito all’interno dello Statuto di un partito e quindi volontariamente abbracciato da chi intende candidarsi all’interno di tale partito; ben diverso è imporre una simile limitazione per forza di legge, applicando tale norma in maniera diffusa, indiscriminata e potenzialmente contro la volontà degli interessati.
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