Qualcuno si ricorderà dell’Unione Sovietica. Un regime sanguinario che ha affamato, vessato, tolto la libertà alle nazioni finite sotto il suo dominio alla fine della Seconda guerra mondiale. Tra queste la Lettonia e i paesi baltici, la cui occupazione fu considerata dagli alleati occidentali un pegno a Stalin per il suo intervento bellico contro la Germania nazista. La resistenza all’oppressione russa è di vecchia data, fin dal 1918, da quando alla dissoluzione dell’impero russo i baltici dichiararono l’indipendenza. La Lettonia, come gli altri paesi baltici e la Polonia, è stata vittima di violenti tentativi di russificazione, prima e durante la dominazione sovietica. Dal 1991 la Lettonia e gli altri paesi baltici hanno riacquistato la libertà dando rapida origine a democrazie avanzate, a dispetto di molti altri Paesi dell’ex blocco comunista ancora oggi impantanati in un’eterna transizione tra socialismo e democrazia.
Si sono formati in Lettonia partiti russofoni, che difendono le istanze della minoranza russa nel Paese. Il principale è il Saskaņas centrs (Centro per l’Armonia), centrista e moderato, ha raccolto nel 2006 il 15% dei voti e ben il 26% alle elezioni del 2012. Pur essendo partito di maggioranza relativa non sono riusciti a entrare nella coalizione di governo. La situazione però si complica con la nascita, nel 2012, del Par dzimto valodu (La lingua madre), movimento radicale russofono e filorusso, guidato dall’attivista Vladimirs Lindermans.
Lindermans (nome da tenere a mente), già arrestato in Russia e estradato in Lettonia dove era accusato di detenzione di esplosivi e attività sovversive, è stato il promotore del referendum per il russo lingua ufficiale. In caso di successo la discriminazione su base linguistica dei russofoni sarebbe decaduta e la lingua russa avrebbe affiancato quella lettone come lingua di Stato. Il referendum, fallito, ha dato il via al progetto politico: il programma di Lindermans è la secessione delle regioni a più alta densità di popolazione russofona. Anzitutto il Latgale.
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[ad]Secondo il capo della Polizia di sicurezza lettone, Jānis Reiniks, intervistato durante un’inchiesta della televisione nazionale, dietro a Vladimirs Lindermans ci sarebbero finanziatori provenienti sia dall’area russofona moderata lettone che da associazioni russe vicine al Cremlino. Che la politica estera russa sia interessata a (ri)mettere le mani sul Baltico non è un segreto per nessuno. Come non lo sono i metodi (si è visto in Ucraina, con la diffusione di passaporti russi alla minoranza russofona della Crimea, o in Georgia con la minoranza russa dell’Ossezia, dove operano molte Ong russe). La conquista, oggi, lungi dall’applicare metodi militari, passa dai media: un intreccio di interessi lega magnati della televisione privata lettone al Cremlino. Jānis Kažociņš, direttore dell’Ufficio per la difesa della Costituzione lettone ha poi recentemente affermato: “Il sistema dei flussi di denaro a sostegno delle organizzazioni non governative russe all’estero è regolato dalle Ambasciate del Cremlino“.
Quanto basta per mettere sul chi va là la Lettonia, la cui legge sulla cittadinanza rappresenta una timida difesa dall’ingerenza russa. La lotta per i diritti di una minoranza (lotta legittima, poiché quella lettone è effettivamente e giuridicamente una discriminazione) quando si mischia a interessi geopolitici, crea confusione. I lettoni hanno diritto a difendere la propria libertà e autonomia nazionale dopo più di un secolo di dominio russo. Ed è comprensibile, viste le persecuzioni che hanno subito, che ciò avvenga anche tramite leggi discriminatorie che è necessario cambiare. Ma se l’interesse effettivo di gente come Lindermans è riportare il Paese nella sfera d’influenza di Mosca, anziché tutelare la minoranza di cui è parte, allora l’umanitarismo deve lasciar posto al buon senso. I lettoni hanno il diritto di difendersi dall’ingerenza russa e in questo andrebbero aiutati dall’Europa, non biasimati.
di Matteo Zola