El Maracanazo
Tutti vogliono vincere il Mondiale. Tutti lo sognano, ma alcuni sono certi di poterlo fare: gli inglesi, in quanto inventori del football, i francesi che si sentono sempre superiori a chiunque, i tedeschi, forti del loro palmares e del loro spirito teutonico e gli argentini dall’alto della loro sfrontatezza da scugnizzo.
[ad]Ma chi più di tutti è certo di vincere la Coppa sono i brasiliani. Candidi e felici come un ragazzo che giuoca al parco e al quale tutto riesce meglio degli altri, i brasiliani semplicemente non contemplano la possibilità di non poter vincere. Così come un bambino non considera realmente possibile che Babbo Natale non gli porti i regali o che la mamma smetterà di dar loro carezze d’amore. Del resto, chiunque lo sa: i brasiliani giuocano meglio di tutti, sono la stessa definizione del football, devono vincere, è il naturale corso delle cose… se c’è una logica… Ma una logica – fortunatamente per il giuoco del football e gli avversari – non sempre c’è.
Per questo, se è vero che, dopo un’eliminazione da un Mondiale, tutti sono tristi e versano lacrime, per i brasiliani è diverso, per i brasiliani è peggio. Per loro è come scoprire ogni volta che Babbo Natale non esiste, come quando il primo amico ti tradisce, la prima ragazza che ti lascia, il primo treno che non prendi, la scoperta che nella vita esiste il dolore e la sconfitta… Per i brasiliani ogni volta è uno shock infantile, una ferita nell’anima immacolata di un bambino sorridente.
L’ultima loro eliminazione contro l’Olanda nel 2012 o quella contro l’Italia del 1982 sono traumi emblematici per i verde-oro: pianti incontrollati, sconforto assoluto e sincera sorpresa: ma come? Com’è possibile che non siamo noi a vincere?? Come un bimbo che fino a un minuto prima era spensierato, e ora s’è preso uno schiaffone.
La questione è così vera e delicata, che esiste nel passato dei brasiliani il trauma dei traumi, il peggiore degli incubi, la madre di tutte le sconfitte. Il più buio dei giorni per il Brasile (calcistico) fu il 16 luglio 1950, a Rio de Janeiro, per la precisione nel mitologico stadio Maracanà.
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[ad]Il format di quei mondiali fu inconsueto: invece delle classiche partite ad eliminazione diretta, la classifica finale doveva definirsi in un girone all’italiana formato dalle quattro vincitrici dei gironi iniziali: Spagna, Svezia, Brasile e Uruguay. Dopo che ogni squadra ebbe disputato due partite con una sola partita da giuocare, la classifica era (la vittoria assegnava 2 punti, NdA): Brasile 4 punti, Uruguay 3, Spagna 1 e Svezia 0. Solo Brasile e Uruguay potevano perciò ancora vincere il Mondiale e proprio Brasile-Uruguay fu la partita che si disputò il 16 luglio 1950: di fatto la finale. Ma non proprio: perché mentre l’Uruguay era obbligato a vincere, al Brasile era sufficiente anche un pareggio per laurearsi campione (proprio come contro di noi nell’82 per il passaggio alla semifinale…).
Prima della partita, i brasiliani si sentivano già comodamente campioni. Il giorno precedente il giornale O Mundo titolava sotto una gran foto della squadra verde-oro: “Questi sono i campioni del mondo”. Si erano già preparati i discorsi delle autorità per celebrare la vittoria brasiliana, lo speaker dello stadio si riferì alla squadra brasiliana come a quella campione e gli stessi dirigenti uruguayani scesi nello spogliatoio chiesero ai loro giuocatori di non farsi umiliare, dando per scontata la sconfitta. Ma il capitano della celeste (così è detta la nazionale uruguayana, NdA), Obdulio Varela, detto el negro jefe (il capo nero, perché figlio di un bianco e una mulatta) non la pensava così e, salendo i gradini verso il campo, disse ai suoi compagni: “Ancora non m’è capitato di perdere una partita prima di giuocarla: non guardate gli spalti, bensì il campo: e lì loro sono undici, esattamente come noi”.
Il fatto è che è difficile rimanere impassibili di fronte a 200.000 spettatori che fanno il tifo per i tuoi avversari, che sono decisamente superiori e ai quali è sufficiente un pareggio per vincere il Mondiale. Il Brasile era in effetti più forte, tanto che lo stesso jefe ammetterà: “Se giuocassimo altre cento volte quella partita, la perderemmo cento volte”… eppure quel giorno… In ogni caso anche l’Uruguay era una squadra di tutto rispetto nella quale si distingueva Pepe Schiaffino, oriundo italiano, che giuocò nel Milan ed è tuttora considerato uno dei più forti giuocatori della storia.
La partita cominciò e il Brasile giuocò “alla brasiliana”: sempre all’attacco, costruendo decine di occasioni da goal. L’Uruguay aspettava, in attesa di un errore. Il primo tempo si chiuse zero a zero, tra i canti di gioia del pubblico. Al ritorno dagli spogliatoi, al secondo minuto della ripresa il Brasile segnò, e a quel punto ogni residuo dubbio si dissolse: come da logica, il Brasile avrebbe vinto i Mondiali e i direttori dei giornali diedero ordine di stampare le prime pagine con titoloni a nove colonne: “Brasile campione!”.
Subito dopo il goal, el negro jefe si chinò a prendere il pallone nella propria porta, se lo mise sotto braccio e andò a chiedere spiegazioni riguardo ad un inesistente fuorigiuoco prima al guardialinee e poi all’arbitro, arrivando anche a chiedere l’intervento di un interprete, essendo la terna arbitrale inglese. Camminava a testa alta nel mezzo del Maracanà di fronte a migliaia di tifosi avversari, con il pallone sottobraccio. In realtà il suo obiettivo era che la partita non ricominciasse subito, far placare l’inferno dei 200.000, far rifiatare i suoi compagni e invece innervosire i brasiliani per quella prolungata e ingiustificata pausa. Tutti dovettero attendere qualche minuto perché Obdulio Varela, el negro jefe, restituisse il pallone e decidesse che si poteva ricominciare a giuocare…
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[ad]Le dinamiche della psiche sono a volte strane e lo sport non fa che esaltarle. Dopo el gesto teatrale del jefe, cominciò un’altra partita. Al ventesimo minuto, Varela lancia l’ala destra Ghiggia (un altro oriundo italiano) che s’invola sulla fascia e mette al centro per l’accorrente Schiaffino, tiro di controbalzo, e goal!!! Uno a uno! Panico tra i brasiliani, silenzio nello stadio, si sentono solo le grida di Obdulio.
Come una serpe, nell’anima dei brasiliani, comincia ad insinuarsi il dubbio e l’incertezza: anche gli avversari possono segnare…e se ne hanno fatto uno, possono farne anche un altro…
Il Maracanà tacque improvvisamente, tutti rimasero muti e attoniti: a volte né le parole, né il corpo sono in grado di esprimere un’emozione: si può solo rimanere pietrificati. Lo shock di quel goal fu tale che ogni brasiliano vi materializzò i propri traumi, tanto che – essendoci poche e confuse immagini – ogni spettatore può probabilmente raccontarne una versione diversa. Per questo lo scrittore brasiliano Carlos Heitor Cony dichiara di “aver smesso di credere in Dio quel giorno. Non tanto per la sconfitta, bensì perché non ho incontrato due persone che descrivessero il gol di Ghiggia nello stesso modo. E allora come credere al racconto di una mezza dozzina di apostoli che videro a Gesù Cristo resuscitato in un luogo deserto e oscuro?”.
Rimanevano undici minuti più il recupero. Come ovvio l’Uruguay si chiuse a difesa del risultato e il Brasile attaccò alla disperata, ma ci sono giorni in cui gli dei si ricordano solo di alcuni dei loro figli. All’ultimo minuto i brasiliani batterono il loro quinto corner della ripresa: tutto il Brasile si riversò in area, attaccanti, difensori, portiere, donne, uomini e bambini… ma il pallone non entrò e l’arbitro inglese fischiò la fine. L’Uruguay aveva vinto il suo secondo mondiale e i brasiliani lo avevano perso a casa loro, il giorno che pareva destinato al loro trionfo. Come un matrimonio che non si celebra e la torta si scioglie in solitudine, come il giorno dell’incoronazione e il re muore pochi minuti prima…
Gli uruguayani festeggiarono piangendo di gioia, i brasiliani impietriti dal dolore. Racconta la leggenda che Obdulio Varela quella notte uscì solo per le strade di Rio, passando di bar in bar, per consolare i tifosi brasiliani che aveva contribuito a riempire di dolore. Si dice anche che la squadra uruguayana non sapeva come e quando lasciare il paese per paura di rappresaglie (che non ci furono) e che decine e decine di brasiliani si suicidarono e altrettanti furono colpiti da infarto.
Quel che è certo è dopo quella partita (chiamata El Maracanazo, un termine difficilmente traducibile che può assomigliare a “la Maracanata” o “il Maracanissimo”) il Brasile non disputò neanche una gara nei due anni successivi e dopo quel giorno, per provare dimenticare, cambiò la propria divisa di giuoco dal bianco che usava prima del Maracanazo all’attuale maglia oro con pantaloncini azzurri.
E’ anche certo che El Maracanazo rimane marcato a fuoco nell’immaginario collettivo brasiliano e del football tutto, a celebrare e ricordarci l’imprevedibilità e l’illogicità del football in primis e della vita in generale. Da cui discende la loro estrema bellezza. Non tutto va sempre come è prevedibile che vada: la palla è rotonda e – come diceva Italo Svevo (e probabilmente anche el negro jefe) – la vita è originale…
[articolo originale pubblicato su L’Undici]