Praga e Bratislava. Distanze variabili nel ventennale del divorzio di velluto
[ad]Fu l’Occidente per gran parte a criticarne da subito lo stile, lo scarso rispetto per le strutture democratiche, la corruzione tollerata nell’intero territorio nonché il via-libera concesso a processi di privatizzazioni selvagge o appropriazioni illegali di molte imprese pubbliche (Mečiar venne persino accusato di rapimento mentre era in carica. Vittima: il figlio del presidente della repubblica Michal Kováč Junior, ritrovato al confine austriaco in stato di incoscienza).
Così si isolò la giovane nazione e ne risentirono i ritmi delle trattative di adesione all’Unione Europea e alla NATO, nonostante Mečiar – tra i tanti entusiasmi trascinanti – sostenesse entrambe le iniziative con un certo inquietante trasporto.
Stato di cose che durò fino al novantotto, ossia fino al giorno in cui perse le elezioni parlamentari al netto del proprio partito che ancora risultava il più votato. Al potere salì il democratico Mikuláš Dzurinda e sotto di lui la Slovacchia riuscì a riprendere i processi di integrazione, registrando profondi e prolifici cambiamenti nelle relazioni con l’Unione europea e altre strutture economico-politiche transatlantiche. Più di cinque anni erano trascorsi.
Scrive la Safarikova: «the lesson for the Slovaks of the post-divorce era was that they can be their own worst enemy». Tradotto: nuovi Mečiar sarebbero potuti spuntare ovunque da un momento all’altro, raschiando decorosi consensi. Da qui la consapevolezza rapida dell’Europa come unica ancora di salvezza. Da qui l’iter slovacco per l’adozione della moneta comunitaria e l’adesione ai piani di salvataggio europei durante la crisi in corso (anche se, per voce del neo-rieletto e talvolta ambiguo premier Robert Fico, la pazienza su questo specifico argomento starebbe per terminare).
Una vicinanza che sottende impegno e volontà. Certo. A differenza della Repubblica Ceca la quale ha vissuto un primo decennio di storia patria assai sicuro, sentendosi storicamente e geopoliticamente da sempre parte dell’Ovest e (cito ancora la Safarikova) «the communist era was just a blip.»
Blip. Una hýbris che ha pure un nome – Czech exceptionalism – e non è difficile fare risalire alla storia, la ricchezza, la cultura del territorio. Consequenziale l’idea che fosse garantito a Praga un posto assai simile a un trono in seno alla Nato e nella Unione Europea, così come l’altalenante e intermittente sostegno concesso a Bruxelles perché sono loro a dovere essere fieri di averci nel club e non viceversa.
Inseribile nel contesto la fetta di elettorato tronfia del fatto che Klaus, nel semestre ceco di presidenza europea, non abbia sventolato dal castello bandierine azzurre destando in Sarkozy lievissime forme di dissenso, o la voglia non proprio irrefrenabile di salutare la Koruna česká per l’Euro, assieme il sogno diffuso in alcuni di finire come la Svizzera, isoletta felice e neutrale nel cuore del continente.
Conclude il pezzo la Safarikova con questa osservazione: «oggi gli slovacchi e i cechi sono alleati ed entrambi membri della Nato e dell’Unione Europea. Ma ideologicamente registrano una crescita assai diversa e diverso sviluppo dal tempo dell’amichevole separazione. Un tempo di crisi nel quale la Slovacchia e altre nazioni hanno realizzato di necessitare ulteriore integrazione, mentre i leader cechi si sono tirati fuori dalla Europa politicamente ed economicamente unita. Un altro divorzio potrebbe essere all’orizzonte.»
(per continuare la lettura cliccare su “3”)