Praga e Bratislava. Distanze variabili nel ventennale del divorzio di velluto

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E’ sempre poco educato entrare a gamba tesa nei fattacci altrui, specie se tiriamo in ballo argomenti delicati e familiari. Tasti dolenti di quelli che alle cene vengono scrupolosamente evitati o conclusi con risatine tombali. Però alcune volte succede di essere trascinati nel vortice del dibattito, così ti trovi costretto ad approfondire un po’. Per altro l’idea del sotteso senso di superiorità ceco nei confronti degli slovacchi è argomento vecchio come il mondo (o quantomeno vecchio come lo spicchio del mondo cui si riferisce) e alcuni anticorpi sono stati generati da gran parte degli interlocutori: questo dovrebbe metterci al riparo da scivoloni irrimediabili. Inoltre, sebbene nessuno mai ne ammetta l’esistenza, ogni volta è interessante ascoltare la contestualizzazione del fenomeno. Perché gira questa voce.

[ad]Lo spunto arriva da un articolo di Katerina Safarikova uscita sulla Transition On Line e l’anniversario dell’inizio dei lavori di scissione cecoslovacca: diciassette luglio novantadue. La signorina imposta come segue il ragionamento.

Fu il novantadue l’anno nel quale i leader cecoslovacchi iniziarono i negoziati per la separazione del proprio territorio in due unità distinte: la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Questo – che viene (da pochi per fortuna) definito con l’orrendo termine di «divorzio di velluto»- si rivelerà nel tempo un modello funzionale di amministrazione per faccende parimenti delicate. Tutto – contando l’apporto di qualche slogan spauracchio del tipo «soli verso l’Europa o insieme verso i Balcani» – fu rapido e pacifico.

Ma differente e insidioso si rivelò il periodo immediatamente successivo al passaggio. Infatti se per i cechi cambiò relativamente poco, tra gli slovacchi ci furono maggiori e più profondi mutamenti.

I cechi si tennero la corona – che divenne ceca da cecoslovacca – e la capitale Praga, l’amatissimo presidente Havel e non furono spostati molti palazzi del potere, senza contare come l’intero pacchetto venne deciso per vie parlamentari e non referendarie, così qualche sbadato avrebbe persino potuto bypassare il cambiamento gironzolando in Malá Strana.

Il tutto, riporta lo scrittore Martin M. Šimečka (Presseurop, Respekt.cz), fu una sorta di liberazione unita alla sensazione di essersi alleggeriti di un fardello.

Viceversa le cose a Bratislava risultarono assai diverse perché il primo premier Vladimír Mečiar si fece portavoce di istanze e comportamenti piuttosto distanti rispetto a quelli della controparte praghese (ai tempi la poltrona era saldamente occupata dall’attuale capo di stato Václav Klaus) e numerosi guai derivarono dall’autoritarismo del personaggio, una sorta di stregone plenipotenziario come già pochi se ne vedevano in giro, dalla faccia squadrata e gli occhi a fessura del cowboy.

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[ad]Fu l’Occidente per gran parte a criticarne da subito lo stile, lo scarso rispetto per le strutture democratiche, la corruzione tollerata nell’intero territorio nonché il via-libera concesso a processi di privatizzazioni selvagge o appropriazioni illegali di molte imprese pubbliche (Mečiar venne persino accusato di rapimento mentre era in carica. Vittima: il figlio del presidente della repubblica Michal Kováč Junior, ritrovato al confine austriaco in stato di incoscienza).

Così si isolò la giovane nazione e ne risentirono i ritmi delle trattative di adesione all’Unione Europea e alla NATO, nonostante Mečiar – tra i tanti entusiasmi trascinanti – sostenesse entrambe le iniziative con un certo inquietante trasporto.

Stato di cose che durò fino al novantotto, ossia fino al giorno in cui perse le elezioni parlamentari al netto del proprio partito che ancora risultava il più votato. Al potere salì il democratico Mikuláš Dzurinda e sotto di lui la Slovacchia riuscì a riprendere i processi di integrazione, registrando profondi e prolifici cambiamenti nelle relazioni con l’Unione europea e altre strutture economico-politiche transatlantiche. Più di cinque anni erano trascorsi.

Scrive la Safarikova: «the lesson for the Slovaks of the post-divorce era was that they can be their own worst enemy». Tradotto: nuovi Mečiar sarebbero potuti spuntare ovunque da un momento all’altro, raschiando decorosi consensi. Da qui la consapevolezza rapida dell’Europa come unica ancora di salvezza. Da qui l’iter slovacco per l’adozione della moneta comunitaria e l’adesione ai piani di salvataggio europei durante la crisi in corso (anche se, per voce del neo-rieletto e talvolta ambiguo premier Robert Fico, la pazienza su questo specifico argomento starebbe per terminare).

Una vicinanza che sottende impegno e volontà. Certo. A differenza della Repubblica Ceca la quale ha vissuto un primo decennio di storia patria assai sicuro, sentendosi storicamente e geopoliticamente da sempre parte dell’Ovest e (cito ancora la Safarikova) «the communist era was just a blip

Blip. Una hýbris che ha pure un nome – Czech exceptionalism – e non è difficile fare risalire alla storia, la ricchezza, la cultura del territorio. Consequenziale l’idea che fosse garantito a Praga un posto assai simile a un trono in seno alla Nato e nella Unione Europea, così come l’altalenante e intermittente sostegno concesso a Bruxelles perché sono loro a dovere essere fieri di averci nel club e non viceversa.

Inseribile nel contesto la fetta di elettorato tronfia del fatto che Klaus, nel semestre ceco di presidenza europea, non abbia sventolato dal castello bandierine azzurre destando in Sarkozy lievissime forme di dissenso, o la voglia non proprio irrefrenabile di salutare la Koruna česká per l’Euro, assieme il sogno diffuso in alcuni di finire come la Svizzera, isoletta felice e neutrale nel cuore del continente.

Conclude il pezzo la Safarikova con questa osservazione: «oggi gli slovacchi e i cechi sono alleati ed entrambi membri della Nato e dell’Unione Europea. Ma ideologicamente registrano una crescita assai diversa e diverso sviluppo dal tempo dell’amichevole separazione. Un tempo di crisi nel quale la Slovacchia e altre nazioni hanno realizzato di necessitare ulteriore integrazione, mentre i leader cechi si sono tirati fuori dalla Europa politicamente ed economicamente unita. Un altro divorzio potrebbe essere all’orizzonte

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[ad]Visione decisamente tranchant ma, come già specificato, mettere bocca dall’esterno in faccende di questo tipo è sempre un azzardo. Limitiamoci così a propendere per la visione maggiormente diffusa tra i cechi di spiccate simpatie comunitarie vale a dire ok, ammettiamo seppure a denti stretti questa tendenza alla grandeur e poca propensione alla condivisione, ma senza generalizzare e demonizzare. E se anche esiste un rapporto scricchiolante con l’Unione Europea, ricordiamo che molto deve essere imputato al presidente della repubblica Klaus, carica non direttamente elettiva e padre nobile di un partito – l’Ods di centrodestra – al momento minoritario rispetto ai socialdemocratici e probabilmente sconfitto alle prossime elezioni. Ricordiamo che non registriamo derive nazionalistiche e la Slovacchia si è sicuramente identificata nel profondo con l’UE ma ha pure continuato a sfornare fenomeni come Ján Slota, pescabili con difficoltà nel panorama politico nostrano.

Un giochetto che potrebbe proseguire all’infinito, consegnandoci teorie in numero uguale agli interpellati lungo l’asse Praga-Bratislava. Magari emblematico della faccenda quanto mi spiegò un giorno un amico ceco riferendosi al collega slovacco (entrambi designer in pausa pranzo su Malostranské náměstí): «macché senso di superiorità e manie di grandezza. Lui per esempio cucina benissimo. Anche se io più leggero. E usa sempre ingredienti naturali. Anche se io li pronuncio meglio.»
Buon ventennale di velluto a tutti.

Da EastJournal

di Gabriele Merlini