Bossi vs Maroni, nuove scintille
I cani piccoli “abbaiano ma non fanno paura”, è questo il commento che il Presidente della Lega ha rilasciato rispetto all’intervista rilasciata da Roberto Maroni a “Sette”, magazine del Corriere della Sera.
[ad]I rapporti tra i due non sono buoni, e c’è da capirli. Da un lato, abbiamo il fondatore della Lega Nord, l’uomo che l’ha modellata a sua immagine, l’ha guidata a risultati elettorali di tutto rispetto. Lo stratega che è riuscito a coniugare la rozzezza delle dichiarazioni all’immagine di “partito dei bravi amministratori”, i proclami di secessione ai giuramenti sulla Costituzione, che ha portato alla ribalta tanti personaggi giovani – rispetto alla media dei politici italiani -, quali ad esempio Tosi, Zaia, Cota, lo stesso Maroni, quando altri segretari di partito devono “fare a pugni” (cit. Bersani) per fare invitare i propri giovani in Tv. E in tutto ciò, lui era “il Capo”, la sua parola indiscutibile, il suo partito “l’ultimo leninista”, per organizzazione se non per ideologia.
Ma è stato travolto, come spesso capita ai capi indiscussi. È stato travolto dalle malefatte dei suoi figli e del cerchio magico da cui si faceva circondare. Ha dovuto quindi lasciare, abdicare al proprio trono, veder cacciati tanti suoi sodali, ha potuto appena salvare per i capelli la carriera politica del figlio Renzo, che già immaginava essere il suo successore.
Dall’altro lato invece c’è chi, escluso dal cerchio magico, si è formato una propria identità politica autonoma, approfittando dei diversi ruoli ministeriali – che Bossi ha in un certo senso ragione a rivendicare come meriti suoi – ricoperti in passato, è passato da leader di una minoranza rissosa a candidato unico alla segreteria, come abbiamo detto altre volte, senza dover nemmeno combattere.
Il combattimento vero è iniziato il giorno dopo il Congresso Federale, nell’attività quotidiana di un segretario che deve ogni giorno legittimare la propria linea e mettere in riga i militanti, primo fra tutti proprio il suo predecessore. Tolto il nome dal simbolo, ha quindi sentito il bisogno, una volta di più, di ricordare urbi et orbi, che il leader ora è lui: l’ha detto ai delegati, se mi eleggete, il capo sono io. E l’hanno eletto. Il ruolo di Bossi è allora solo onorifico, “affettivo, il riconoscimento concesso alla sua storia personale”. Non ha alcun potere.
“Il capo sono io”, ha invece ribadito il Senatur. E se il Congresso non fosse solo che una parte, la prima, del processo di ristrutturazione della Lega?