E se la crescita non fosse la soluzione?
E se la crescita non fosse la soluzione?
L’aggravarsi della crisi economica internazionale, che vede l’Italia nella ben poco invidiabile posizione di Paese ad alto rischio, rischia ormai di distruggere la società europea così come la conosciamo, con le sue regole democratiche, con il suo welfare state, con tutte quelle conquiste che hanno reso il Vecchio Continente, seppur non più all’apice del pianeta dal punto di vista economico, politico e militare, un baluardo e un faro di civiltà per il mondo intero.
[ad]La crisi dei debiti sovrani sta mettendo in forte crisi la tenuta degli standard di diritti e servizi in molti Paesi Europei, né pare che – basta osservare Spagna e Italia – le politiche messe in atto per arginare lo sfacelo stiano dando buoni frutti.
Ad oggi, le principali istituzioni della UE paiono bloccate dalle divisioni tra le fazioni a favore del rigore e della crescita: gli esponenti della evidenziano come non sia possibile, per gli Stati virtuosi, finanziare ulteriormente i Paesi indebitati senza garanzia – via via più stringenti a seconda della gravità della crisi – di un rientro economico, tradotto in un controllo sulla politica monetaria dei Paesi più deboli; i fautori della seconda rimarcano l’impossibilità di arrivare a produrre ricchezza sotto il cappello di politiche restrittive e recessive, evidenziando come l’imposizione di politiche rigoriste svuoti completamente le potenzialità economiche di un Paese allo scopo di pagare i debiti contratti senza dagli più alcuna speranza di poter di nuovo in futuro camminare con le proprie gambe.
Entrambi gli approcci hanno naturalmente le proprie ragioni d’essere e le proprie modalità di applicazione, ma entrambi, pur nelle profonde diversità, partono da una necessità comune e si pongono all’interno del medesimo modello sociale, basato sulla crescita economica.
La strategia rigorista, prettamente darwiniana e che si potrebbe stigmatizzare in un approccio “di destra”, fissa le proprie priorità nell’abbattimento delle spese – cercando di colpire quelle improduttive – e nella restrizione della platea dei diritti e dei servizi sociali allo scopo di onorare il debito contratto proprio per finanziare un livello di ricchezza evidentemente non supportato da fondamentali economici sufficienti. Il default di un Paese sancisce il fallimento della sua linea politica ed economica, e la sua trasformazione in protettorato – di fatto se non di nome – di Paesi maggiormente virtuosi.
La linea che vorrebbe mettere in primo piano la crescita, naturalmente, non pretende una riproposizione delle politiche economiche degli anni ’80, di una crescita fittizia pagata solo con il debito pubblico, ma vorrebbe tuttavia un maggior respiro creditizio – basandosi su un concetto solidaristico tra nazioni forse un po’ utopico – allo scopo di rilanciare la crescita economica.
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