Per poter discutere della crisi economica, si dovrebbe comprendere come ci si è arrivati, capire che le responsabilità sono solo interne e, quindi, smetterla di cercare i colpevoli all’estero. Le accuse che vengono mosse alla Germania sono completamente immotivate, perché la crisi attuale è solo l’ultima ricaduta di una malattia che va sviluppandosi da decenni, che si è sfogata nel ’92 e che oggi si ripropone molto più acuta.
[ad]All’epoca, come oggi, c’era bisogno di riforme strutturali, molte delle quali a costo zero, ma la classe politica non se ne è preoccupata fino a un passo dal baratro. In quegli anni, per farla breve, furono alzate le tasse e svalutata la moneta, ma non si cambiò fondamentalmente nulla, rendendo il conto da pagare oggi ancora più salato. Un buon sunto delle riforme di cui ha bisogno il Paese è la famigerata lettera della BCE, che purtroppo ha finito per arricchire più il dibattito sulle teorie del complotto che l’attività del governo.
Non c’è dubbio che l’Italia necessiti di un corposo piano di liberalizzazioni, di un ritiro della politica dall’economia e di una sensibile riduzione della spesa pubblica. Dall’operaio protetto da un contratto a tempo indeterminato, al professionista che cerca la tutela dell’albo, per finire con l’imprenditore che vive di appalti manipolati o finanziamenti pubblici, quasi ogni categoria ha la sua fetta di privilegi, che la favoriscono a detrimento del resto della popolazione.
Mentre in un’economia sana l’imprenditore è motivato a innovare e il lavoratore ad accrescere il suo capitale umano, in Italia sono presenti una serie di incentivi perversi che spingono gli agenti economici alla ricerca di immeritate rendite di posizione. Questo stato di cose, mantenuto se non favorito dall’onnipresenza e dall’incompetenza della politica, è la causa principale della crisi italiana.
Da questo punto di vista, il dibattito sulla necessità di ripristinare il primato della politica sull’economia è risibile, perché la prima già domina e soffoca qualunque forma di attività economica: dal controllo che esercita sulle banche tramite le fondazioni (nota di colore: quanto sono buffi i nostri rappresentanti quando chiedono pubblicamente agli istituti di credito, che controllano, di prestare a imprenditori e famiglie?), a quello sulle professioni, fino al ridicolo mettere bocca sul numero di licenze di taxi (che non dovrebbero avere un limite dettato dalla legge ma dal mercato e dalla concorrenza) o sulla differenza tra il salario minimo di un programmatore e quello di un sistemista. Non c’è uno spillo che si muova senza l’approvazione diretta della politica o di qualche sua emanazione.
Per incapacità, o perché impegnato nella difesa degli interessi dei suoi membri, il parlamento italiano ha sostanzialmente ignorato la crisi finché questa non è esplosa. Anche adesso, forse per le stesse ragioni, l’unico contributo dei parlamentari italiani all’opera riformatrice del governo – comunque parecchio limitata e inferiore rispetto alle promesse – consiste nell’ostacolarla e nel blaterare di riforme elettorali, sarebbe molto meglio se si facessero da parte. La necessità principale è quella di risanare il sistema economico con riforme capaci di renderlo competitivo, ora.
Il tempo delle chiacchiere tornerà, adesso è tempo di agire per il bene del Paese.
di Dino Costantini