E’ difficile trovare il bandolo della matassa in questa crisi che ormai dura da più di due anni e non sembra aver raggiunto ancora il giro di boa. Soluzioni non ne abbiamo, altrimenti non ci sarebbe quel grosso punto interrogativo disegnato sulla nostra faccia. La faccia di chi si trova esterrefatto di fronte a una vita, la sua, che non gli appartiene anche perché se si guarda intorno non vede la realtà che aveva creduto di dover vivere: non eravamo noi la generazione del mulino bianco? E invece ci troviamo in crisi. Una crisi economica, che certo preoccupa, ma soprattutto una crisi morale e sociale. Una crisi democratica insomma.
L’intolleranza del riccio
[ad]La democrazia oggi è vituperata, capro espiatorio per chi ritiene il nostro modello sociale superato. Ad essa si preferiscono personalismi, autoritarismi soft, e dalle urne (in Italia come nel resto del continente) escono novelli sultani. Quando non si ricorre alle urne, sono i pubblicani a occupare gli scranni del potere. Gli incendiari diventano presto pompieri e le rivoluzioni fatte al bar diventano sempre il successo del partito populista di turno. La crisi economica si associa a questo secondo aspetto: l’ascesa del populismo. Un populismo “sociale” che strizza l’occhio alle destre radicali, antiliberali, nazionalistiche, esclusive. L’idea di società da costoro proposta è quella di un’ecosistema corrotto da agenti esterni (immigrati, usi e costumi foresti, perdita dei valori religiosi, ateismo consumista) che solo chiudendosi a riccio può salvarsi. La gente, spaventata dalle prospettive di disoccupazione e povertà, vede nel riccio una metafora della propria anima sgomenta. E li vota.
La crisi economica diventa così anche una crisi morale perché il riccio, con i suoi aculei, non è campione di tolleranza. La tolleranza, principio caro a Voltaire, è uno dei tratti distintivi della cultura europea. L’intolleranza è serpe che nell’animo nostro si fa il nido, cultura deteriore, paura di un mondo che nei secoli abbiamo dominato e che oggi si rivolta contro, come un figlio ingrato. L’intolleranza è figlia dell’eurocentrismo. Eppure gli europei, in fondo sempre convinti di essere i migliori, sono convinti di non essere tutti migliori uguali: c’è sempre qualcuno più migliore degli altri. All’Europa come simbolo di unità, pace e solidarietà, non ci credono in molti.
La mancanza di sovranità europea
Il problema economico e quello morale hanno un’unica soluzione e un’unica origine immediata: la mancanza di una sovranità europea condivisa e sovraordinata rispetto a quella degli Stati. Ciò impedisce di prendere decisioni comuni e di accompagnare le politiche di solidarietà a quelle di controllo sull’economia. Sarebbe il momento di discutere come costruire una vera e propria federazione europea, a cui affidare la gestione delle risorse. E con un presidente eletto direttamente dai cittadini, un’ingegneria istituzionale comune che veda l’autonomia del paesi membri e un’autorità federale su alcune materie. Quando parlo di queste cose mi dicono: sono sogni. E io ribatto, no. Non sogni. E’ la vita che dovevamo vivere, che ci stanno scippando da sotto il naso, e che dobbiamo riprenderci. Ok, il mulino bianco è una scemenza, ma una società equa non lo è.
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Una civiltà di eunuchi
Per questo l’Europa avrebbe oggi bisogno di più societas. Un sistema del welfare, insomma, tale da garantire dignità ai cittadini: lotta alla disoccupazione; diritto al lavoro e diritti per i lavoratori (parola novecentesca “lavoratore”, oggi siamo tutti “impenditori di noi stessi”); pari opportunità per uomini, donne, stranieri; reddito minimo di cittadinanza (o altri paracadute, utili anche a non far contrarre i consumi); diritto alla scuola (e invece si taglia alla scuola pubblica per dare a quella privata, ma che aspettarsi da un premier bocconiano?); diritto ad essere curati indipendentemente dal reddito; diritto alla pensione. Mi si dice: tutto questo costa, e non ci sono i soldi, bisogna tagliare. Tagliare sulla società è tagliarci le balle, condannarci a una civiltà di eunuchi, a un futuro sterile.
Immaginazione al potere
Il fatto è che questa classe politica manca di immaginazione. E gli economisti, pure. I filosofi, anche. Tutti senza immaginazione, chiusi in schemi mentali novecenteschi non sanno interpretare il futuro. Quello che servirebbe è l’immaginazione al potere, come diceva Marcuse. E l’immaginazione in economia, come asseriva Marshall (certo non un socialista: “most of all the economist needs imagination, to put him on the track of those causes of visible events which are remote or lie below the surface, and of those effects of visible causes which are remote or lie below the surface“). Immaginate se al potere ci fosse l’immaginazione. Diceva un grande libertino, Giacomo Casanova, che la realtà dipende dall’immaginazione. E un filosofo arabo, Ibn Arabi, gli faceva eco: “tutto ciò che sei è immaginazione, tutto ciò che vedi è immaginazione dell’immaginazione”. E quindi? Quindi adesso mandiamo Casanova e Ibn Arabi a Bruxelles, ok?
di Daniela Piazzalunga e Matteo Zola