E’ uscito di recente per Laterza il libro di Carlo Galli “I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità“. L’autore insegna Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna ed uno studioso attento del pensiero politico, nonché uno dei massimi esperti italiani di Carl Schmitt.
[ad]Il tema su cui si sofferma il libro è un’analisi delle caratteristiche delle élites italiane, affrontata da una prospettiva storica, all’interno della quale però emergono alcuni modelli ricorrenti o ciclici che, pur attraverso molteplici variazioni, tendono a ripresentarsi nella storia nazionale. Si tratta quasi sempre di forme di inadeguatezza o di imperfezione che derivano innanzitutto dal rifiuto di assumere il ruolo a loro spettante nella società non solo in termini di privilegio, ma anche di responsabilità, declinando i loro interessi all’interno di una prospettiva più vasta di interesse nazionale.
Bisogna innanzitutto dire qualcosa sul termine élite. L’autore lo impiega in un senso vasto che include tanto le élite politiche quanto quelle imprenditoriali, i ceti intellettuali quanto parte del mondo delle professioni, rifuggendo così dalle letture semplicistiche che tendono a concentrare la loro critica unicamente sulla classe politica. Non solo, ma l’autore suggerisce come la stessa antipolitica sia una caratteristica profonda e di lungo corso delle stesse élite, che può manifestarsi in diversi modi: nello scetticismo del principe di Salina nel Gattopardo, nel distacco dell’intellettuale “tradizionale”, nell’affarismo particolaristico del “faccendiere” o del “notabile” locale, negli atteggiamenti “eroici” o “populistici” di un intellettuale alla D’Annunzio. Il populismo politico consente alle élites di non confrontarsi con le proprie responsabilità, “nascondendosi” dietro a personaggi spettacolari, vistosi e inconcludenti, potendo così continuare indisturbate a dedicarsi ai propri affari e al proprio disimpegno.
A questa impotenza, che si aggrava con l’avvento della politica di massa verso l’inizio del Novecento, non si risponde con una riforma reale, ma con soluzioni scenografiche e spettacolari: prima con l’eroismo d’annunziano e poi con il populismo carismatico mussoliniano, sostanzialmente appoggiato dalle classi dirigenti.
Qualcosa cambia con l’avvento della Prima Repubblica, quando i partiti politici, allora realmente di massa, consentono una partecipazione di una larga fascia di cittadini alla politica e garantiscono un ampio ricambio delle classi dirigenti, che, almeno nel primo trentennio post-bellico, includono numerosi personaggi di grande spesso, in ambito politico, economico e culturale. Tuttavia progressivamente questa spinta riformatrice interna ai Partiti viene meno, dando origine a forme di degenerazione del sistema. Anche in questa forma di degenerazione Galli ravvisa un fenomeno ciclico, che propone di inquadrare in una grande periodizzazione, per cui, nella storia dello Stato italiano, a lunghi periodi in cui viene introdotto un nuovo sistema dotato di una spinta propulsiva che progressivamente scema (il nuovo Stato unitario e la Prima Repubblica) succede una nuova “forzatura istituzionale” (il fascismo e il berlusconismo) che cerca di prolungare la sopravvivenza del sistema ormai degenerato attraverso l’impostazione di una nuova configurazione di carattere populistico. Al fallimento di questo tentativo ventennale segue una fase di crisi che dà origine a un nuovo sistema progressivo.
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[ad]E’ sulla base di questa analogia storica che Galli formula il suo auspicio che la fase attuale di crisi possa preludere a un rinnovamento. Ma – e qui sta forse la parte più fragile della sua analisi- egli identifica nel governo Monti il punto iniziale possibile di tale rinnovamento. Il governo Monti, ipotizza Galli, potrebbe essere il segno che le élites hanno preso atto della necessità di una rinnovata responsabilità e dunque, sfiduciato Berlusconi, sosterranno le riforme necessarie a una nuova fase di sviluppo e di rilancio del paese.
Due perplessità si possono sollevare in merito a questa analisi: la prima riguarda il vincolo internazionale e la seconda la base “culturale” del governo Monti.
Per quanto riguarda la prima Galli fa giustamente notare come tutte le fasi di crisi che l’Italia ha affrontato in passato abbiano avuto un forte stimolo esterno in una determinata situazione internazionale e si siano potute realizzare in virtù di “sponde” e alleanze esterne. In questo caso il fattore destabilizzante è evidentemente la crisi europea. Tuttavia la “sponda” e il sostegno internazionale su cui il governo Monti si regge (quella con l’Europa e la Germania in particolare) è una sponda malferma. Il rifiuto della Germania di fare concessioni sostanziali sui temi decisivi (il ruolo della BCE, la condivisione del debito, la modifica dei Trattati, della politica e delle istituzioni europee in un senso che permetta la progressiva riduzione degli squilibri macroeconomici) ha progressivamente eroso il consenso di cui il governo Monti godeva inizialmente, rendendo difficile ai cittadini intravedere il significato dei sacrifici e delle misure restrittive a cui erano sottoposti. Venuto meno il clima di fiducia iniziale appare ora difficile che il governo Monti possa ancora avere la forza per realizzare le necessarie riforme di lungo periodo. Il secondo tema verte sulla natura di tali riforme. Il governo si è concentrato su riforme restrittive volte a restaurare la “fiducia dei mercati”. Per quanto riguarda i provvedimenti più di lungo periodo si è invece concentrato su liberalizzazioni e flessibilizzazione del mercato del lavoro. Si è in altre parole attenuto ad un’agenda classica di tipo liberista. Finora è evidente come questi provvedimenti non abbiano funzionato. L’analogo fallimento di simili ricette in tutto Europa pone la questione se la filosofia che ispira l’azione del governo Monti sia quella adeguata per affrontare la grande transizione storica che stiamo vivendo e se nella bufera della grande crisi economica non stia maturando anche un grande cambiamento culturale rispetto al quale il governo Monti si ritroverebbe semplicemente in arretrato coi tempi. Se fosse così, in analogia alle grandi transizioni che l’Italia ha vissuto in passato e che Galli brillantemente illustra, solo se la politica riprendesse la parola in prima persona, rinnovandosi contestualmente nelle idee e nelle persone, il nostro paese potrebbe sperare in una rinascita.