“Me ne vado a Est”, Matteo Tacconi e l’emigrazione dell’imprenditoria italiana
[ad]La Repubblica di Moldova è uno dei Paesi di cui si legge con maggior interesse sul vostro libro. Pensi che per le aziende italiane possa diventare quello che è stata l’Ungheria negli anni Novanta e la Romania in tempi più recenti? Il punto di partenza è proprio la Romania, con la sua nutrita presenza italiana e un mercato che tuttavia si sta saturando. Gli imprenditori stanno cominciando a spostarsi sulla Moldova, sulla base di una tendenza generale che è quella ad andare sempre più a Est, verso stati in piena transizione, che obbligano a tirare fuori il coraggio. Romania e Ungheria sono legate all’Occidente – e per quanto si possa scriverlo sui giornali, non usciranno dall’Europa -, mentre altri Paesi, come la Moldova e l’Ucraina, hanno il fascino dell’incertezza. Danno la sensazione che lì si possa creare, inventare. Sapresti dirci a grandi linee a quali settori appartengono le aziende italiane in Moldova? La presenza italiana è già rilevante, ma non ci sono ricerche che ne determinano la dimensione precisa. Difficile quindi rispondere con certezza, ma posso intuire che per contiguità territoriale anche qui funzioni quello che vende bene in Romania. Tessile, calzaturiero, mobilifici. Niente turismo? Cosa lo frena? Non ancora. Il territorio non è molto noto e chi lo conosce è inibito dalla questione della Transnistria, una regione separatista della Moldova, indipendente de facto, che presenta un alto tasso di criminalità. Questo stato nello stato è ancora legato agli ideali della vecchia Unione Sovietica, ed è tenuto sotto controllo da un contingente di peacekeepers russi che ne preserva l’autonomia. Difficile che una famiglia parta per passare le vacanze in Moldova, sapendo delle turbolenze della Transnistria. Un’altra nazione da non perdere di vista? Senza dubbio la Polonia, che dal 2004 sta vivendo una straordinaria crescita. Il suo momento più felice dopo secoli di storia tragica. I polacchi godono di una posizione diventata vantaggiosa, incastonati tra le economie più dinamiche dell’Ue: quelle di Germania e Paesi scandinavi. Oltre a questo si stanno iniziando a colmare le lacune più gravi, come la carenza di infrastrutture. Senza contare che i polacchi hanno un’indole avventuriera, si prendono dei rischi, ci provano sempre, hanno voglia di futuro. Credo, dunque, che la Polonia sarà in grado di muoversi sulle proprie gambe anche quando il flusso dei fondi strutturali Ue, decisivi per l’attuale sviluppo, sarà chiuso. Nel libro vi soffermate sullo stabilimento Fiat in Serbia: cosa ne pensi delle polemiche contro la decisione di spostare parte della produzione di Mirafiori a Kragujevac? Quello che abbiamo cercato di spiegare al lettore è che il processo di spostamento della Fiat in Serbia era già iniziato ed era fatto risaputo. La grande sorpresa manifestata dai politici all’annuncio di Marchionne è inverosimile. Cosa diresti a chi polemizza contro la delocalizzazione e gli investimenti ad Est? Trovo sempre poco credibile lo stupore che emerge ogni volta che qualche azienda investe a Est. Il trend è in corso da almeno dieci anni e ci sono diversi tipi di imprenditori che vanno oltre confine. Da una parte figura quella buona imprenditoria, anche piccola, che decide di internazionalizzarsi per conquistare una nuova fetta di mercato e lo fa creando prodotti pensati per la domanda locale. Dall’altra ci sono quelli che approfittano dei minori costi di produzione che ci sono a Est. Parlo insomma di chi chiude il capannone in Italia e lo apre in Romania, Albania, Bosnia. Fortunatamente tra le due categorie prevale nettamente la prima. Infine c’è chi “deve” spostarsi, perché in Italia non ci sono le condizioni ideali per produrre. Parto da quest’ultima affermazione per collegarmi ad una vostra frase: “Nessuno desidera produrre in Italia. Si produce nel Belpaese solo perché sono italiani alcuni imprenditori geniali e coriacei o perché già vi sono delle fabbriche. Ma, quanto a investitori stranieri, davvero poca roba“. Pensi che l’Italia dovrebbe cercare di diventare appetibile agli occhi dei produttori stranieri? Oppure è meglio concentrare le energie (e le leggi) sulle nostre produzioni? Ci sono molte leggi da cambiare e grandi ostacoli da rimuovere. Nell’ultimo capitolo del libro abbiamo fatto un elenco di tutto ciò che frena il nostro Paese. La lista è lunga: problema generazionale e disoccupazione giovanile, mancanza di strumenti per attirare investitori dall’estero, infrastrutture non del tutto all’altezza della situazione, settore universitario in crisi, pochi soldi alla ricerca. Manteniamo la speranza di cambiare il sistema esistente, ma parliamo comunque di un’evoluzione, se ci sarà, faticosa e lenta. L’internazionalizzazione, al contrario, è un processo già avviato, una realtà da comprendere e portare avanti. Hai raccontato un esempio di imprenditoria italiana nell’ex Urss (quello della Todini Costruzioni). Quali peculiarità e criticità devono considerare le aziende in Russia? Quali prospettive future offre questa nazione? La Russia presenta una notevole eterogeneità, sia economica che imprenditoriale. In generale, si tratta di un sistema “pesante”, con qualche eccesso di burocrazia e corruzione e una rete appena sviluppata di Pmi. Le aziende italiane presenti sul territorio sono di conseguenza grandi e perlopiù di stato.
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