“Me ne vado a Est”, Matteo Tacconi e l’emigrazione dell’imprenditoria italiana
[ad]Adesso che Mosca è entrata nella Wto, tuttavia, le possibilità di investire cresceranno. Il Paese dovrà adeguarsi maggiormente alle regole internazionali, cambiando, in parte, alcuni dei suoi costumi commerciali. Vedremo se e come l’imprenditoria italiana saprà trarne vantaggio. Spostiamoci nei Balcani, a Brčko, distretto bosniaco fortemente conteso al tempo della guerra e oggi trasformato in un territorio neutro, più ricco rispetto al resto del Paese, amministrato dalla comunità internazionale. È vero che lì ci sono tante aziende italiane? Brčko calamita investimenti, attraverso sgravi e incentivi. Grazie a questi programmi è stato costituito un attivo distretto italiano, composto quasi del tutto da veneti. I rapporti con l’Italia, tuttavia, erano già rodati grazie alla vicenda di Italproject, un’azienda a capitale misto italo-bosniaco. Italproject rilevò una zona che all’epoca della guerra era ad alto tasso di criminalità. La bonificò per creare un gigantesco ipermercato, inaugurato sette, otto anni fa. All’epoca ne scrisse la stampa internazionale. Dedicai anche io un articolo al progetto e parlai con gli investitori. Ho provato a riprendere contatti con l’azienda durante la stesura di “Me ne vado a Est” e non sono riuscito a rintracciarli: scomparsi nel nulla. Un episodio rappresentativo di quanto succede spesso nelle storie di imprenditoria all’estero: gente che viene e gente che va. Anche se avete redatto un testo di taglio economico, la raccolta di materiale vi avrà portato a contatto con altri aspetti della vita all’Est. Dove hai trovato la comunità italiana più radicata? A Timisoara c’è una sorta di “Little Italy”, forse qualcosa di più. Parliamo di 15-20mila aziende, soprattutto del Nordest. In Serbia, a Kragujevac, dove si trova il mega stabilimento della Fiat, sta iniziando a formarsi una nuova comunità italiana. Le aziende che lavorano con il colosso torinese si spostano qui per ricreare l’indotto. Anche in Polonia ho notato una fitta presenza italiana, come del resto la si trova in Ungheria, da decenni. Fare comunità è utile e importante, ma che mi dici dell’integrazione? Gli italiani riescono ad inserirsi nelle realtà dove investono o restano isolati dal la differenza linguistica? Dipende dalle realtà aziendali che investono. Se sono chiuse e provinciali, non avranno successo e dopo un’iniziale andamento soddisfacente, se ne andranno. Una buona scelta è dotarsi di un project manager locale e in generale creare aziende a composizione mista e interagire con la forza-lavoro del posto. Serve fiducia nella popolazione locale e profonda conoscenza del mercato. Per questo è indispensabile integrarsi, rispettando il posto dove si investe, la sua storia e la sua cultura. Non è solo, insomma, una faccenda di pura economia. Alla fine si arriva a trovare un equilibrio tra i modi di fare del Paese questione e le competenze italiane. Un aneddoto che ricordi con un sorriso? Puoi raccontarne uno non incluso nel libro, per favore? Ero in Polonia, diretto in auto ad intervistare il capo della comunità gay polacca. Un pazzo ci ha travolto – ero con il fotografo – distruggendoci la macchina quasi del tutto. Abbiamo dovuto lasciarla in Polonia e rivenderla ad un meccanico. Un affare siglato da una stretta di mano, senza burocrazia. Direi che questa piccola storia è un esempio di uno degli ingredienti della formula polacca: stato leggero e tanto spirito imprenditoriale. Fiutato l’affare, il meccanico non si è fatto troppi problemi. Cerca di non farseli nemmeno il Paese, concentrato a proseguire nella sua crescita, senza ingabbiarsi da solo. Ciao e grazie, Matteo, ci vediamo a Est! (C.L.)
di Silvia Padrini e Claudia Leporatti