Da tempo si dibatte sulle difficoltà dei trentenni e quarantenni italiani, quelli che negli Anni Ottanta, da ragazzini, avrebbero dovuto diventare famosi, fare scoperte mirabolanti e fondare aziende di successo, e che invece si sono scontrati con i problemi di un paese fermo per quindici anni in cui le opportunità si sono sempre più affievolite.
A tal punto che oggi questa ex generazione di «saranno famosi» viene da alcuni considerata una generazione «perduta», per la quale al massimo possiamo cercare di limitare i danni riponendo le nostre speranze sulle generazioni più giovani. Ma è davvero così? I trentenni e quarantenni italiani sono davvero un vuoto a perdere per il nostro Paese?
Sulla Rete e su un blog de La Stampa online ne è nato un acceso dibattito, in cui un gruppo di diretti interessati, attraverso un «manifesto della generazione perduta», rivendicano un ruolo più attivo nella vita del paese, vogliono essere una risorsa, non un fardello. Ma di fatto queste persone sono già una risorsa importante.
E’ vero che questa generazione è stata quella che più di altre ha pagato l’immobilismo del paese, ignorata e sottovalutata da una classe politica e dirigente sempre più anziana e chiusa in se stessa. Ma il fatto che sia stata ostacolata ed ignorata non significa che non sia una componente fondamentale della vita del paese, che sta contribuendo in modo cruciale alla sua tenuta economica, sociale e demografica.
Si tratta infatti di tredici milioni di italiani in età tra i 30 e 44 anni, due terzi dei quali lavora, costituendo quasi la metà della forza lavoro italiana. Una fascia di età che ha un tasso di occupazione tra i più alti di tutta la popolazione, basta pensare che solo il 55% degli italiani tra i cinquantacinque e i cinquantanove lavora, una percentuale che scende al 20% per i sessantenni e all’8% per gli over 65. Senza contare che è tra i trenta-quarantenni che si formano le nuove famiglie e nascono i bambini che saranno l’Italia di domani. Sono una parte importante del nostro paese, fatta di cittadini che si stanno impegnando con fatica ma anche con determinazione e dignità. Cittadini mediamente molto più istruiti della generazione dei loro genitori (e dei politici che li rappresentano), con esperienze interessanti alle spalle, non novellini come a volte vengono dipinti. Si tratta infatti di persone entrate nel mercato del lavoro tra la metà degli Anni Novanta e i primi anni del Duemila, quando ancora la crisi non era quella di oggi. E anche se i loro contratti erano già quelli atipici che tolgono sicurezze sociali e prospettive di pensioni decenti, hanno però maturato esperienze e competenze che cercano di applicare nei loro lavori. Lavori che coprono tutto lo spettro di attività produttive e di servizi del nostro paese.
Sono loro i periti e gli artigiani che mandano avanti le migliaia di piccole e medie imprese che fanno il «made in Italy». Sono gli architetti, gli avvocati o gli ingegneri che per stipendi magrissimi mandano avanti i grandi studi i cui vecchi fondatori girano in Porsche. Sono i giornalisti che tengono in piedi molte nostre testate grazie ad un lavoro di qualità pagato una minima parte di quello dei «grandi vecchi». Sono i ricercatori che consentono ad interi dipartimenti universitari di resistere. Sono i volenterosi che gestiscono le migliaia di cooperative che con costi minimi erogano servizi per conto di comuni, province e regioni, consentendo risparmi che gli enti locali magari spendono per finanziare opere fatte da amici costruttori o per ripianare i buchi creati nelle aziende pubbliche dagli incompetenti messi lì con logiche politiche. E sono sempre loro, tutti loro, che per anni hanno pagato tasse crescenti sulle loro forme contrattuali atipiche già molto penalizzanti per consentire alle generazioni precedenti di andare in pensione a cinquant’anni o anche meno.
Pensare che questi milioni di lavoratori siano «perduti», come se il contributo che quotidianamente danno o provano a dare a questo paese sia inutile, è ingeneroso e, soprattutto, non risponde alla realtà. E sperare di limitare i danni non è l’obiettivo che dovremmo porci né quello che gli stessi interessati chiedono. Basta leggere i loro blog, i commenti sui forum online, per capire che una buona parte di questi italiani non chiede né compassione né assistenza, ma un riconoscimento e un’opportunità, un obiettivo collettivo che sia per loro una motivazione a non mollare. Che non significa raccontare favole, ma avere il coraggio di impegnarsi tutti per cambiare questo paese ora, subito.
E per fare questo non servono sussidi, serve una politica per la crescita vera, che sbloccando monopoli, eliminando clientele, privilegi e sprechi, introducendo una vera cultura della trasparenza e della valutazione dei risultati, liberi spazio e risorse per chi davvero ha energia e competenze, per chi ancora ha voglia di investire in questo paese, giovani e meno giovani, italiani e stranieri. Politiche di questo genere, se fatte in modo incisivo e tempestivo – senza i tentennamenti che purtroppo abbiamo visto spesso su questi temi – potrebbero creare delle opportunità e tenere vive delle speranze ragionevoli anche per loro. Insomma, il nostro Paese e i nostri governanti dovrebbero avere più fiducia nei trentenni e quarantenni italiani e sulle opportunità che potrebbero avere davanti. E rendersi conto che se sono perduti loro, lo è tutto il Paese.
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