Dal Blog: La sindrome dei sassi

Pubblicato il 10 Agosto 2012 alle 14:17 Autore: TP Racconti

[wp_connect_like_button href=”” send_button=”enabled” layout=”standard” width=”600″ show_faces=”enabled” verb=”like” colorscheme=”light” font=”arial” ref=”” /]Scendo dall’autobus pieno di speranza ed eccitazione, ma appena fuori da quel lungo scatolone con quattro ruote, mi rendo conto di non essere ancora dove avrei voluto.

Ero salito a Bari per arrivare a Matera. Avevo comprato il biglietto giorni prima, cercando di farmi spiegare esattamente la fermata dove salire, ed ero partito senza dirlo ai miei genitori. Volevo tornare in quella città e nessuno doveva conoscere il mio segreto. Mi ero messo in testa di rivedere quelle case di pietra bianca che chiamano Sassi e che quando avevo visto insieme a mamma e papà mi erano sembrati un presepio. Eravamo andati a marzo, non ricordo il giorno. Camminavamo con fatica su e giù per i sentieri e le scalinate. Mamma si era stancata presto e papà aveva paura che io potessi fermarmi in mezzo a una strada e dire: “Basta, non ce la faccio più”. Invece io ero felicissimo e dicevo, testardo: “Andiamo avanti, lei ci aspetterà qui”. Così avevamo camminato ancora per un poco, fino a una piccola piazza con una ringhiera da dove ero rimasto a guardare il panorama dei Sassi, forse per un’ora, senza staccare gli occhi di dosso da quello che mi sembrava il paese di Gesù.

Ora, però, fuori dall’autobus tutto è diverso.

Con mamma e papà eravamo andati in macchina e avevamo posteggiato all’interno dei Sassi. Pensavo che la stazione fosse lì vicino, invece no. E’ in un posto come tanti, con case come quella dove abito io a Bari. Non riesco a capire e chiedo ad almeno tre persone: “Ma questa è Matera?” e tutte mi rispondono di sì, con l’aria di prendermi per scemo. Allora chiedo ad altri dove sono i Sassi e tutti mi dicono di andare dritto. Ma la strada sembra non finire mai, specie per il mio passo lento. C’è traffico, passano auto in continuazione e guardo con i miei occhi allungati ogni persona che incontro lungo il marciapiedi, sperando qualcuno mi dica: “Dai, ci sei quasi”. Ma nessuno mi parla. Qualcuno incrocia il mio sguardo. Tutti gli altri, no.

Eppure, la via è quella giusta. Noto anche un cartello, di quelli marroni con la scritta bianca, che indica la direzione per i Sassi. Proseguo e sento di nuovo l’eccitazione nel mio cuore, sperando non sia un effetto del caldo. E’ luglio, poco dopo mezzogiorno. Incomincio a sudare. Per fortuna ho con me una bottiglietta d’acqua che mi ero portato da Bari e che non avevo ancora finito. Non penso al mio telefonino spento, né a mamma e papà che si sarebbero preoccupati. Il mio unico desiderio è ritornare in quella piazzetta per sedermi su una panchina e, finalmente, riposare guardando i Sassi bianchi sotto il cielo di un blu incredibile e senza una nuvola.

Però, più cammino più il caldo mi assale e più il mio collo già tozzo mi sembra un peso insopportabile. Forse sarebbe stato meglio fermarsi per dieci minuti, magari entrare in un bar, restare un poco all’ombra: ma cavolo, altro tempo perso senza arrivare ai Sassi non potevo sopportarlo. Così continuo a camminare, sempre più con lentezza, fino a quando mi blocco perché sto barcollando, perso nel vuoto con il mio sguardo per alcuni già assente di solito. Mi appoggio al muro con una mano e ansimo. Una signora se ne accorge e mi chiede come sto. Io rispondo soltanto: “Sassi”. Allora, lei mi prende per mano e mi accompagna dentro un piccolo bar pieno di gente che beve e gioca le schedine. Si mette a urlare per chiedere di fare spazio, ma in pochi secondi la sua voce mi arriva come un suono lontano, fino a non sentirla più.

Cosa accadde in quei momenti e quanto durarono, non lo saprò mai.

Mi risveglio a terra, sdraiato sul pavimento di quel bar. All’inizio vedo tutto intorno a me in modo confuso, di un colore simile a quello del latte. Eppure sono sveglio, non posso essere morto. Finché non riesco a mettere a fuoco un ragazzo, poco più vecchio di me, vestito con un giubbotto arancio e con in mano quell’apparecchio per misurare la pressione. Continua a chiedermi con gentilezza come mi chiamo, quanti anni ho, dove abito. Quando capisco, gli rispondo, anche se con sforzo. Finché lui sorride e mi dice: “Stai tranquillo, è tutto a posto: hai solo avuto un piccolo collasso. Ma dove stai andando? Sei solo?”

Io mi vergogno tanto e non voglio più parlare, ma lui insiste. Qualcuno vuole chiedermi i documenti, altri dicono che bisogna andare dai carabinieri. Allora mi metto a gridare, ripetendo: “Mi arrendo! Mi arrendo!”. Il ragazzo fa cenno agli altri di stare zitti e mi chiede: “Perché ti vuoi arrendere? Che cosa volevi fare?”. E a quel punto, non posso che raccontargli la verità, tremando dalla paura che mi porti in caserma. Invece, il suo viso a poco a poco si illumina.

“Non è successo niente di grave. Ora puoi rialzarti. Appoggiati a me, pian piano: ecco, bravo”.

Dopo avermi aiutato a rimettermi in piedi, mi chiede: “Posso parlare con i tuoi genitori?” Ed io, guardandolo, decido di fidarmi. Prendo il cellulare dalla tasca, lo accendo e gli indico il numero da chiamare. Lo sento parlare e capisco che dall’altra parte c’è mio padre. Lui continua con il suo tono calmo a spiegare tutto e infine mi tende il telefono allungando il braccio. Mi sento inquieto, è il momento più difficile del guaio in cui capisco di essermi cacciato. Di controvoglia, prendo il cellulare e senza nemmeno salutare mio padre gli dico subito: “Non ti arrabbiare”. Ma lui è  tranquillo e continua a dirmi di stare calmo e di aspettarlo, perché sarebbe venuto a prendermi prima possibile.

E ora, che cosa sarebbe successo?

Il ragazzo sembra capire la domanda che sto per fare e mi dice che avrebbe dovuto portarmi in ospedale per un controllo: laggiù avrei poi trovato mio padre per riportarmi a casa. Mi metto quasi a piangere, parlando in modo ancora più confuso e continuando a dire: “Voglio andare nella piazzetta dove si vedono i Sassi”. Lui mi stringe i polsi con le mani per calmarmi e mi chiede: “Ma dici piazzetta Pascoli?”. Che ne sapevo io come si chiamava. Continuo a guardarlo restando zitto. Lui però è sicuro di non sbagliare: “E’ qui a due passi, ti porto io. Ma poi facciamo come ti ho detto e andiamo in ospedale”.  Ho soltanto il tempo per fare sì con la testa ancora pesante e già mi acchiappa sottobraccio per portarmi dove mi aveva detto, facendomi attraversare la strada sulle strisce, senza fretta, alzando la mano verso le auto in segno di pazienza. E dopo aver fatto davvero pochissimo cammino, mi dice: “Ecco, siamo arrivati”.

Ed era vero. Il belvedere sui Sassi era proprio quello.

Che emozione! E com’erano diversi da quando li avevo visti a marzo! La luce molto più forte dell’estate fa risaltare ancor meglio le pietre delle case. Il paese di Gesù, come lo chiamo io. Resto a bocca aperta, con un’espressione credo davvero ridicola, ma non mi importa. Sento le lacrime agli occhi, pronte per cadere sulle guance. Il ragazzo se ne accorge: “Ma stai piangendo?”, mi chiede. Ed io, all’improvviso, lo abbraccio con tutta la mia forza un po’ goffa per ringraziarlo, a modo mio, per avermi aiutato a realizzare il mio piccolo grande sogno, che sembrava essersi infranto pochi passi prima del traguardo. Lui lo aveva capito, mi aveva voluto ascoltare e mi aveva infine portato dove volevo tornare, partendo da Bari come un ladruncolo che fugge senza lasciare tracce. Come uno sciocco, anche se per un buon motivo.

Ho voluto raccontarvi la mia piccola storia, che a molti di voi potrà sembrare banale, oppure strappalacrime, o soltanto stupida. Ma per me, Michele, diciannove anni, afflitto da una lieve sindrome di Down che mi accompagna dalla nascita, è stata la vittoria della vita.

di Davide Valenti