Dal Blog: Tavolo Cinque

Pubblicato il 17 Agosto 2012 alle 18:17 Autore: TP Racconti

Giuro che se vedo ancora un piatto di patatine fritte, mi metto a vomitare.

Sì, lo so: è il contorno perfetto col pesce, ma porca miseria quanto puzza il fritto. Non ho mai capito come faccia il cuoco a resistere. Io, in trent’anni che faccio il cameriere, non mi sono ancora abituato, anche se le nostre sono buone e l’olio lo cambiamo spesso. E’ una trattoria pulita e frequentata, da sempre, qui ad Amalfi. Ci vengono dagli inglesi che sanno dire solo “pizza” alla coppia sposata da tempo che in Costiera rivive la propria gioventù. Anche gli amalfitani, quando non c’è troppo caos. Quasi mai le comitive o i cafoni. Abbiamo pochi tavoli, siamo in un posto riparato, non va bene per chi vuole stare al centro dell’attenzione. Forse è per questo che lavoro qui da una vita.

Che emozione quando venne a cenare Gore Vidal da casa sua a Ravello! Il suo segretario ci aveva avvisati il giorno prima e quei cretini dei due guaglioncelli assunti per la stagione che dicevano: “Gore che? E chi è chist’?”. Meno male che Carmelo, il titolare, aveva detto a me di servirlo. Ancora il suo autografo tengo, dentro un libro, così non si sciupa.

Perché io non ho studiato e ho sempre fatto solo il cameriere, ma so chi è Gore Vidal. E l’ho pure conosciuto.

Sono tanti trent’anni ai tavoli. Si lavora sempre in piedi. Ci si ingobbisce. Si fa tardi la sera e si recupera sempre meno la mattina. Tanta pazienza coi clienti, ma tante mance, anche se con ‘sta crisi pure loro si sono ridotte. Certo, è un lavoro da solitario. Ma io non mi sono mai sposato, mi sta bene così. Io leggo, quel che non ho letto a scuola. Hemingway, Marquez. I racconti di viaggio. E sogno di essere in quei posti e di fare le cose dei personaggi dei libri. Ho girato il mondo stando ad Amalfi in una trattoria. Anche perché avete idea di quante persone sono passate sotto i miei occhi? Altro che il mondo.

Il cameriere può essere simpatico o antipatico, ti puoi ricordare di lui se è stato gentile e magari tornare a mangiare in quel ristorante anche per questo motivo. I giovani ammiccano di più e spesso riescono a combinare qualcosa. Io non mi sarei mai permesso di farlo, ma i tempi cambiano. Però, alla fine, nessuno sa come ci chiamiamo, se siamo del posto o se viviamo altrove, cosa ci mettiamo addosso quando non lavoriamo e ci togliamo camicia bianca e farfallino. Noi, invece, sappiamo molto di più di voi che venite a mangiare qui. O meglio, molto di più di quanto voi crediate.

E’ impossibile non sentirvi mentre parlate, anche se in quel momento non vi stiamo mettendo un’orata al cartoccio sotto il naso. Sappiamo i vostri nomi, sappiamo se state insieme o se siete solo amici, sappiamo se siete di buon umore, se state festeggiando un’occasione speciale, se state discutendo di un problema delicato, se state per dirvi addio. Ma, soprattutto, sappiamo chi siete da come e cosa state mangiando. E a me tutti questi particolari hanno sempre attratto. Ecco perché sono ancora qui dopo trent’anni e la schiena curva. Ogni sera non è mai uguale a un’altra.

E questa sera, al tavolo cinque, sto servendo una coppia che mi incuriosisce molto.

Sono belli, tutti e due. Sulla quarantina. Lui alto, moro, con l’aria da velista. Lei bionda, sottile, raffinata. Il tipo da mondo della moda. Parlano con un accento dell’alta Italia che però non riesco a individuare. Sono qui in vacanza, ma non si divertono per niente. Hanno quasi terminato di cenare, ma lui continua a sbocconcellare la mollica del pane e a farne piccole palline. Una cosa odiosa e uno spreco di cibo. Parla in continuazione e ha un tono noioso, ripetitivo, quello che si usa quando si inizia a stilare un elenco di tutto ciò che non va alla persona che si ha di fronte. E pare proprio così. Lei è a disagio, anche se tenta di mascherarlo. Non lo guarda quasi mai in volto, puntando lo sguardo sugli altri tavoli, sulle marine napoletane a olio appese alle pareti, su di me. Come a dirmi: “Toglimi questa palla al piede”. Lui prosegue, totalmente preso da se stesso, senza rendersi conto di essere pesante. Né lei sembra tentare di difendersi. Che cosa starà accadendo? In quel momento arriva Carmelo e gli dico: “Carmè, li vedi quelli al tavolo cinque?”

“Sì. Maronna, che tristi”.

“Ho capito che son tristi, ma lei non sta bene”.

“E’ bella”.

“Ma non sopporta più quello lì che fa finta di essere dell’equipaggio di Mascalzone latino. Pure che spezza il pane, sto scemo”.

“ E vabbuò, che ti frega?”

“Mi frega. Mi dispiace per lei”.

“Ascolta, non fare cazzate. Non farti licenziare da me dopo una vita perché non ti fai gli affari tuoi. Capito?”

“Carmè, non ho diciott’anni. Non t’agitare”.

Lascio Carmelo sul posto e mi metto ad andare avanti e indietro per la sala. Tolgo piatti sporchi, ne porto di nuovi, controllo chi ha bisogno della carta dei dolci. Il tutto con la massima indifferenza. Ma più volte incrocio lo sguardo di lei e stabiliamo un contatto, soltanto con gli occhi e i nostri rispettivi silenzi. In contemporanea, ascolto e memorizzo frammenti dei discorsi di lui:

“Devi darmi atto che il tuo tentativo di lanciare quella linea di intimo è stato un disastro” (…)
“Se non ci fossi io che penso sempre a tutto: non so proprio dove hai la testa”(…)
“Quella tua amica, poi, sai di chi parlo. Sempre a tirarti dentro nelle cose sue, sarebbe da lasciare per la sua strada” (…)
“ E poi perché siamo venuti qui? Non potevamo andare a Positano?” (…)

Vado al loro tavolo e chiedo: “Un caffè signori? Un limoncello di nostra produzione? O…”

Non riesco a terminare la frase perché lui, con tono frettoloso, risponde: “No, grazie: può portarci il conto”.

“Va bene”.

Porto loro la ricevuta, la poso sul tavolo e, prima di allontanarmi, con un rapido gesto butto per terra la pochette di lei, facendo in modo che tutto sembri involontario. Un secondo dopo, chiedo scusa e mi chino per terra a raccoglierla, infilando dentro un bigliettino. Lei vede perfettamente ciò che sto facendo. Lui impreca: “Che modi sono? Stia più attento!”

Lei ha la prima reazione della serata e gli risponde, gelida: “Non vedi che non l’ha fatto apposta? Che sarà mai? Non ci ha rovesciato addosso del vino”. Lui tace, seppur di controvoglia. Io mi scuso ancora e lei, sorridendo, risponde: “Non si preoccupi”.

Mentre lui prende la ricevuta e poi il portafogli, lei rovista nella pochette e legge il biglietto. Guarda in mia direzione, seria. Sembra non tradire alcuna emozione.

Io faccio finta di non notare che l’ultima loro diatriba della serata riguarda la mancia. Lui non vuol darmela per la storia della pochette che ho fatto cadere e lei, alzando forse apposta la voce, gli risponde:  “Come vuoi, lo farò io”. Al che lui si alza, cammina verso l’uscita e saluta tutti noi di fretta, senza quasi guardarci. Esce dalla trattoria e si mette nervosamente a giocare con il cellulare. Lei cammina lentamente verso di me. Mi guarda, con la stessa serietà di quando aveva letto il mio biglietto. Mi mette in mano una mancia più che generosa e mi dice, scandendo le parole: “Prima o poi lo farò”.

Io arrossisco e non rispondo. Lei sorride, mi saluta ed esce. Carmelo mi dice: “Vai a sparecchiare il tavolo cinque”.

di Davide Valenti