La Germania medita di affossare l’Euro? Ma le conviene davvero? Le tappe che hanno portato la Germania ad essere la padrona e la principale beficiaria della moneta unica.
Mai come in queste ultime settimane il dibattito sulla posizione della Germania, in questa colossale crisi europea del debito, si è fatto acceso. Da una parte coloro che criticano l’atteggiamento chiuso ed irremovibile della cancelliera Angela Merkel; dall’altra coloro che difendono le virtù tedesche, cercando di farne un esempio da applicare agli altri stati membri meno virtuosi. Nel frattempo la crisi si sta inasprendo, i numeri parlano di rischi quasi incalcolabili e concretamente non è stata ancora presa nessuna decisione ufficiale. Anzi, i continui colloqui e bracci di ferro stanno diventando ormai una farsa. La domanda che è lecito porgersi quindi è: la Germania è conscia del pericolo e della situazione cui essa stessa sta andando incontro?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro e tornare al 1989, tappa fondamentale nella storia mondiale. L’anno della caduta del muro di Berlino, della fine del comunismo vecchio stampo e di quella netta frattura tra il mondo liberale Occidentale ed il mondo Orientale. La Repubblica Democratica Tedesca fu, l’anno successivo, unificata alla Repubblica Federale di Germania, creando la Germania che conosciamo oggi. I costi di questa riunificazione, calcolati in più di 1.500 miliardi di Euro, sono stati un fardello pesantissimo per l’economia teutonica negli anni successivi.La ragione è molto semplice: i due Paesi avevano economie molto differenti; una, la Germania Ovest, florida e competitiva su scala globale; l’altra, la Germania Est, in affanno, obsoleta e piuttosto limitata.
La decisione di una conversione al Marco tramite due tassi di convertibilità diversi ha dato il via al collasso dell’economia della parte orientale. Disoccupazione galoppante, continua migrazione verso le lande occidentali e privatizzazioni affrettate hanno causato perdite talmente ingenti che, ancora oggi, viene versato uno stanziamento di 100 miliardi di Euro annui ai territori orientali per la ricostruzione.
Durante l’ultima decade del secolo scorso la Germania si finanziava sui mercati a tassi attorno al 5% circa, se non addirittura superiori in alcuni frangenti. La bilancia commerciale, ovvero la differenza tra import ed export, presentava saldi negativi con un outflow di capitale (e quindi di ricchezza) verso l’esterno che, dal 1992 al 1998, ha raggiunto la considerevole cifra di 129,36 miliardi di Euro. Nonostante questo, a causa della debolezza cronica delle altre monete, tra cui la Lira Italiana e, soprattutto, la Sterlina Britannica (e qui ricordo l’attacco di Soros che costrinse le autorità monetarie inglesi ad una svalutazione della stessa nel settembre 1992) il Marco tedesco veniva recepito dai mercati come moneta “forte” e questo comprometteva la competitività delle aziende tedesche all’estero ed imprigionava l’economia tedesca in un circolo vizioso.
[ad]Basta considerare qualche dato macroeconomico ufficiale tedesco del 1992 fino al 2002 per constatare una situazione poco diversa da quella dell’ultimo decennio italiano: il PIL cresceva ad un tasso medio annuo di solo 1,3 punti percentuali; il tasso di disoccupazione era stabile attorno al 8%; il rapporto deficit/PIL quasi costante ad un valore di circa 3,5% annuo ed il rapporto debito pubblico/PIL cresciuto dal 55% al 67%. Ed ecco perché la Germania, ormai in affanno, ha chiesto e voluto con tutte le sue forze l’unione monetaria. Perché agli illuminati economisti e politici tedeschi era molto chiaro che il disegno dell’Euro avrebbe portato solo vantaggi.
Bisogna comunque riconoscere – e sarebbe un errore grossolano non farlo – anche i meriti: le riforme strutturali tedesche dell’ultimo decennio riguardo al consolidamento fiscale e alla riforma del mercato del lavoro orientato alla crescita, fortemente voluti da Schröder, hanno cambiato le cose e da qualche anno se ne vede l’impatto positivo sull’economia tedesca, pur in un momento difficile come questo.
La coalizione guidata dalla Merkel si è ritrovata in eredità una situazione decisamente rosea, e non necessariamente per meriti propri!
Comunque torniamo all’Euro. Molte menti illuminate avevano lanciato un grido di allarme nel lontano 1997, circa i rischi di un’unione monetaria europea, senza unione fiscale, politica e senza una nuova BCE (Banca Centrale Europea) con poteri più forti, uguali a quelli della FED (Banca Centrale statunitense) o della BOE (Banca centrale del Regno Unito), tanto per citarne due. E a distanza di così tanti anni, tali previsioni si sono rivelate esatte.
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[ad]Dal 1999, anno del debutto della nuova moneta sui mercati finanziari, le cose sono cambiate tantissimo sul fronte tedesco. Principalmente perché la nuova moneta era considerata più debole rispetto al Marco tedesco, poiché espressione anche di economie di paesi più deboli, con squilibri e problemi e che non rispettavano i parametri del trattato di Maastricht, quali Italia, Belgio, Spagna e Portogallo. Questo ha favorito senza alcun dubbio le economie dei paesi forti che, grazie alla nuova valuta più debole, potevano esportare i loro manufatti verso l’estero a prezzi più competitivi.
Basta riprendere i dati della bilancia commerciale tedesca per verificarne gli effetti: da un saldo negativo di 32,55 miliardi di Euro nel 1997, ad un saldo positivo di 40,58 miliardi nel 1999 e addirittura 127,85 nel 2001. Un’inversione di tendenza tanto drastica quanto repentina! Un incredibile flusso di denaro estero che si è riversato nel Paese, favorendo una crescita tecnologica e di competenze, e finanziando crescita e sviluppo. Certo, ahimè, nessuno considera che una vasta parte di quei soldi sono finiti in mano alle banche e queste ne hanno approfittato per aumentare a dismisura la speculazione, innalzando il grado di leverage e di rischio delle proprie operazioni.
Ma non voglio analizzare questo punto adesso. La percezione di un’economia forte e sana, insieme ad un afflusso di denaro così ingente, al contrario di quello che succedeva in altri Paesi, Italia in primis, ha favorito anche un abbassamento dei tassi di interesse sul debito pubblico. Questo perché la Germania viene vista sempre più come un porto sicuro, o safe haven come dicono gli inglesi, mentre le economie periferiche vengono percepite all’esatto contrario. Questo abbassamento costante dei tassi di interesse sul debito sovrano tedesco, soprattutto negli ultimi due anni, ovvero da quando la crisi si è acuita ed i Paesi periferici hanno iniziato ad avere problemi ben seri, tali da mettere a rischio la solvibilità degli stessi, ha portato ad un paradosso: oggi un soggetto, diciamo avverso al rischio, investendo dei soldi sui titoli di stato tedeschi a breve scadenza, diciamo 24 mesi, ha un ritorno reale in termini percentuali, ovvero considerando l’inflazione, addirittura negativo! Cioè, io investo i miei soldi e sono pure disposto a perderci pochissimo in termini di potere di acquisto, perché altrimenti, se li parcheggiassi altrove, rischierei perdite molto più grosse!
E così, la Germania sta ristrutturando il proprio debito quasi gratuitamente. Negli anni a venire avrà pochissimi interessi da pagare sui propri Bund e questo potrà liberare ancora più risorse per stimolare la crescita, mantenendo l’alto livello di competitività acquisita. L’altra faccia dell’Europa è quella italiana, spagnola, irlandese, portoghese e belga, dove i tassi per il rifinanziamento del debitopubblico stanno crescendo esponenzialmente, mettendo sotto scacco le finanze ed i conti pubblici, e quindi qualsiasi programma o progetto di crescita.
Anzi, se ci aggiungiamo i programmi di austerity, tanto cari alla Merkel, ecco che il cocktail per un’esplosione della crisi è pronto. Ultimamente rimango stupito da quanto la cancelliera abbia una visione miope e rimanga ancorata alle sue convinzioni senza segni di apertura. La paura più grande della Germania è e sarà sempre l’inflazione. Dai tempi di Weimar e del successivo avvento del nazismo è l’incubo che tormenta i sonni tedeschi. Ma è un incubo stupido e troppo fuori dalla realtà! Una realtà che oggi ci parla di deleveraging a tutti i livelli, dallo Stato alle banche, alle imprese per finire fino alle famiglie. La crescita infinita, fondata sul debito facile, è stata una chimera.
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[ad]Ho sentito recentemente una frase molto saggia detta da un economista durante un dibattito in televisione: non si può puntare ad una crescita infinita quando il mondo, e quindi le risorse di cui disponiamo, sono finite! Il ridimensionamento a tutti i livelli è evidente e questo ci regala deflazione. Non lasciamoci ingannare dalle notizie riportate dai mass media sui dati dell’inflazione: quel 3% degli ultimi mesi è dovuto interamente all’aumento del prezzo delle materie prime, petrolio in primis. A causa della continua speculazione di stampo bancario/finanziario, che, dopo i mercati azionari ed il marcato immobiliare, si è spostato e ha preso di mira il mercato delle commodities(basti vedere grafici dei metalli e dei beni di prima necessità quali grano, zucchero e compagnia bella).
La ricetta per la crescita in periodi di deflazione non deve essere basata esclusivamente sul rigore! La Germania deve aprirsi assolutamente agli Eurobond, che siano stability oppure union bonds; deve aprirsi ad un accordo per ampliare i poteri della BCE. Io sono convinto che i problemi non si risolvano stampando moneta “a go go”, come è stato fatto altrove. Un proverbio afferma che puoi portare il cavallo all’abbeveratoio, ma non puoi forzarlo a bere. Se il mondo circostante può adottare tutte le strategie possibili perché ha i mezzi per farlo, io non posso pensare di sopravvivere senza avere gli stessi identici strumenti in mano. Soccomberei senza ombra di dubbio.
In questi giorni si parla moltissimo di crisi del sistema bancario spagnolo, con banche che necessitano, secondo diversi studi, di almeno 100 miliardi di Euro. Troppi per pensare che lo stato spagnolo possa farcela da solo, senza andare incontro ad una crisi uguale a quella greca. Sono forse troppi anche per il fondo EFSF o per l’ESM, che, pronti via, si vedrebbe subito senza una bella fetta di risorse. Risorse che, ricordo, devono essere versate da ogni singolo Stato in proporzione alla partecipazione al fondo stesso. E che quindi indebolirebbero ancora più gli Stati in difficoltà. Se la BCE potesse diventare anch’essa lender of last resort, ovvero prestatrice di ultima istanza, il mondo esterno percepirebbe come molto meno pericolosa la situazione, avendo un garante così forte, e si placherebbe finalmente quella tensione sui mercati, aiutando, e non di poco, la situazione finanziaria dei paesi periferici in grossa empasse.
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[ad]Perché è chiaro a tutti, e forse non ancora ai tedeschi stessi, che basta solo un Paese come la Spagna per affondare inesorabilmente l’Europa e, di conseguenza, anche loro. E quella apparente oasi felice di prosperità, si disintegrerebbe in men che non si dica.
Ora si parla di ERF, un nuovo acronimo che sta per “European Redemption Fund”. Sostanzialmente si tratta di un fondo europeo dove confluirebbero tutti i debiti degli Stati che eccedono il 60% del PIL degli stessi. Il fondo verrebbe garantito dagli stessi Stati membri attraverso alcuni asset pubblici e da una percentuale di tasse riscosse a livello nazionale. Questo fondo emetterebbe bonds a scadenza lunga, si parla di 20 anni, a tassi di interesse piuttosto contenuti. Nello stesso arco di tempo i Paesi si impegnano solennemente a portare avanti un percorso finanziario che li porti a raggiungere nei tempi prestabiliti il 60% del rapporto debito/PIL. Con il chiaro vantaggio, per i Paesi in difficoltà, di poter pagare molti meno interessi sul debito, perché garantito dal fondo stesso, rispetto a quelli attuali.
La Germania, e più in generale i paesi più “virtuosi”, si accollerebbe chiaramente dei costi maggiori. Ma è solo così che l’Europa darebbe un segnale di coesione tale da scongiurare la speculazione a breve/medio termine e garantirsi un periodo di calma, nel quale organizzare la tanto attesa unione politica e fiscale. In sintesi, per concludere, o la Germania mette da parte le sue paure e le sue smanie di comando e superiorità e decide di ricambiare gli aiuti all’Europa, che tanto le ha dato negli anni post-riunificazione e che tanto le potrebbe ancora dare in futuro, ma a condizioni ben diverse, oppure meglio che finisca tutta questa fanfara e si ritorni indietro nel tempo. Io non la vedrei necessariamente come una sconfitta; la ricetta della globalizzazione non l’ha prescritta nessun medico.
Adesso già immagino un fiume di critiche, ma la realtà empirica è che la globalizzazione, per noi cittadini europei, ha significato solamente perdita di competitività, cultura e ricchezza e appiattimento di valori sociali quali libera iniziativa, etica e cooperazione.