Comunella e liberatutti mentre brucia Jan Palach

Comunella e liberatutti mentre brucia Jan Palach

 

E’ difficile tornare a scrivere dopo la lunga pausa estiva. Ed è in punta di piedi che East Journal cerca di rompere il silenzio, il proprio ma non solo. E inizia a farlo con questa rumorosa, a volte gridata, rubrica dal nome J’accuse in cui il sottoscritto, approfittando del proprio cognome, lancia sterili strali malamente emulando l’omonimo Emile. Cerchiamo  dunque di riprendere il filo delle cose lasciate in sospeso.

[ad]Anzitutto, la Siria. Tornato dalla più totale astinenza da informazioni apro un quotidiano italico a caso (tanto non c’è grande differenza) e scopro che il regime di Damasco è ora accusato di possedere armi chimiche. Un deja vu… dov’era già? In Iraq? Nessuno qui sostiene che al-Assad sia un monarca illuminato ma che almeno si cerchino argomentazioni meno trite per persuadere l’opinione pubblica sulla bontà dell’intervento armato. Un intervento che il veto russo e cinese rende più complicato poiché il cosidetto “occidente” non potrà in tal caso appellarsi al diritto internazionale come già fatto in Libia. Non che l’assenza della legittimazione Onu impedisca alcunché, ricorderete i bombardieri Nato sui cieli di Belgrado. Nell’intrico siriano ciò che emerge con chiarezza è la nebbia. Nessuno ci ha ancora detto chi sono i ribelli e chi li arma. Nessuno ci ha spiegato quante e quali siano le effettive responsabilità del governo siriano. E non sono evidenti nemmeno i contraccolpi geopolitici dell’eventuale (ma ormai imminente) caduta di al-Assad. Chi scrive non brilla per intelligenza ma Libano e Iran sono lì a due passi. Qualcuno dei mezzibusti televisivi può illuminarci? Giusto per rompere il rumoroso silenzio della propaganda. Intanto Aleppo brucia ma chi sia l’incendiario è ancora un mistero.

C’è poi la faccenda delle tre cantanti della punk band russa Pussy Riot, giudicate colpevoli di vandalismo e istigazione all’odio religioso in Russia, condannate a due anni di carcere per i fatti avvenuti il 21 febbraio scorso nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore. In quell’occasione le femministe hanno cantato una ”preghiera” di protesta contro il presidente Vladimir Putin. ”Le cantanti – ha affermato la Corte – hanno agito provocatoriamente e in modo offensivo all’interno di un edificio religioso, in abiti inadeguati per una chiesa e gridando parole blasfeme e sacrileghe”. Pare che siano concubine del demonio e sfreghino le loro pudenda su bastoni maledetti. Un rogo già brucia nella piazza rossa.

Altre brevi. La chiesa ortodossa russa fa la pace con la Polonia che, nel dubbio, rilancia sullo scudo spaziale. Il presidente della repubblica Komorowski ha infatti avanzato l’ipotesi di uno scudo “tutto polacco”. Come a dire, contro Dio basto io ma contro Putin no. Quando il peperone brucia…

 

[ad]Nel giorno dell’Aid al Fitr, la fine del Ramadan, due attentati hanno colpito le regioni del Daghestan e dell’Inguscezia, repubbliche russe a maggioranza musulmana. Almeno sei poliziotti sono stati uccisi da un kamikaze che si è fatto saltare in aria durante un funerale di due agenti, uccisi nel distretto di Malgobek, nel nord dell’Inguscezia. Il Caucaso continua a dare fuoco alle polveri, mentre le olimpiadi invernali di Sochi, località russa ai piedi del Caucaso, si avvicinano. Quando il tedoforo è un mujaheddin, il fuoco di Olimpia scotta.

Infine come non parlare de “la crisi, kolossal da mille miliardi prodotto dalle principali istituzioni finanziare globali. Protagonisti gli Stati democratici, la cui fine sembra decretata. Riusciranno i nostri eroi a salvarlo? Sul Corsera leggo del solito tira e molla tra Grecia e Germania, l’una che cerca dilazioni, l’altra che impone tempi e misure. Né l’articolista né il commentatore offrono chiavi di lettura. Sarà che il nostro Paese sta lì, a metà strada, ed è bene non prendere posizione. Dalle colonne de La Repubblica apprendo che il premier italiano Monti, davanti alla platea di comunella e liberatutti a Rimini, ha affermato di vedere l’uscita dal tunnel. Chissà perché non mi sento comunque tranquillo. Sarà che lo stipendio continua a non arrivare da mesi, o che Jan Palach è venuto a trovarmi in sogno: “Si chiamava Angelo di Carlo, cinquantaquattro anni, originario di Roma e residente a Forlì, l’uomo che l’11 agosto si era dato fuoco davanti a Montecitorio per protesta contro precarietà e disoccupazione”. Fredde righe de La Stampa mentre il nostro silenzio comincia a bruciare.

Da EastJournal

di Matteo Zola