La strada stretta di una sinistra di governo. Prima parte
E’ facile capire come l’importanza e il significato delle prossime elezioni saranno decisivi. La crisi imporrà certamente scelte che incideranno in profondità sul futuro del nostro paese, sulla sua collocazione internazionale, sulle sue prospettive economiche, sulla sua composizione sociale, sul suo grado di giustizia sociale. Si tratta di scelte chiaramente legate a doppio filo con lo sviluppo del contesto internazionale, e in particolare con l’evoluzione della crisi dell’euro. Sia l’ipotesi di un’accelerazione del processo di unificazione, sia quella della disgregazione dell’area euro sono destinate ad incidere in profondità sugli equilibri del continente. Ma entrambi gli scenari possono essere gestiti diversamente, con attenzione maggiore riservata ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri.
[ad]Ed è così che la distinzione tra destra e sinistra, forse troppo frettolosamente data per superata, riacquista nel contesto attuale un profondo significato. E’ bene subito dire che si tratta di una distinzione che ora come ora non è semplicemente schematizzabile con una linea netta tra partiti di destra e partiti di sinistra. All’interno degli stessi partiti si svolgono dibattiti che vedono contrapposte posizioni diverse e anche diverse idee di cosa significhi destra e sinistra.
Ma in tempi difficili bisogna prendersi anche la responsabilità di parlare chiaramente e tracciare delle distinzioni, che potranno essere accusate di parzialità, ma che sono utili per chiarire il dibattito. In questo articolo in 4 puntate il tentativo sarà dunque di definire quelli che dovrebbero essere, al di là delle sfumature, i cardini di una proposta di sinistra concreta, l’analisi della situazione su cui si dovrebbe fondare, le proposte d’azione, le forze politiche che potrebbero sostenerla, le difficoltà tra cui dovrebbe districarsi.
Per quanto riguarda l’analisi della crisi, la lettura si pone in antitesi su molti punti con la spiegazione “ufficiale”, sia nella versione tedesca che in quella italiana. Questi sono alcuni dei punti fondamentali:
- La crisi non è una crisi del debito sovrano. Questo perché sono stati colpiti paesi con posizioni debitorie molto differenti (la Grecia che effettivamente aveva un problema di debito e deficit nascosto con artifici contabili, l’Italia, che aveva un forte debito pregresso ma deficit contenuti; la Spagna e l’Irlanda, che avevano ottime posizioni debitorie drammaticamente aggravate dallo scoppio di bolle immobiliari e dal salvataggio di banche in seguito alla crisi mondiale), ma una crisi dovuta a deficienze strutturali dell’architettura dell’euro. Il fare un’unione monetaria senza delle politiche di convergenza economica (anzi, impedendole, attraverso il divieto degli aiuti di Stato che impedisce di fatto ai paesi membri di fare politica industriale) ha creato una serie di squilibri che sono all’origine delle bolle immobiliari nei paesi del Sud, del surplus commerciale accumulato dalla Germania grazie a una politica di contenimento salariale eccessiva in rapporto alla produttività del lavoro. L’assenza di meccanismi di aggiustamento che tendano a favorire un riequilibrio della bilancia commerciale fa sì che si formino squilibri insostenibili, che fino alla crisi del 2007 venivano finanziati attraverso un trasferimento di fondi attraverso il sistema bancario dai paesi del centro a quelli della periferia, ma che, ora che questo flusso si è interrotto, emergono in tutta la loro drammaticità.
- La crisi mondiale è stata la causa scatenante, facendo venire allo scoperto gli squilibri strutturali dell’euro. Ma ha anche contribuito ad aggravarla, dato che molti stati hanno dovuto intervenire per salvare le loro banche colpite dalla crisi finanziaria, aggravando così i bilanci pubblici. La recessione ha fatto poi il resto, con la sua azione molteplice di riduzione delle entrate fiscali, abbattimento del denominatore del rapporto debito/pil, aumento della spesa per ammortizzatori sociali.
- La politica scelta per combattere la crisi è scellerata perché invece di risolverla la aggrava. Si trattava di intervenire su due livelli: il primo, emergenziale, teso a scongiurare la recessione con interventi congiunturali di stimolo all’economia e il secondo, strutturale, di riforma della struttura della zona euro. Non solo si è risposto in maniera erronea al secondo problema, ma non lo si è distinto dal primo, lasciando che, con interventi erronei, la recessione si aggravasse esacerbando il problema. Il primo errore fu l‘innalzamento dei tassi fatto troppo presto da Trichet, che strozzò la ripresa in corso. La situazione greca è stata affrontata con colpevoli ritardi che hanno fatto crollare la fiducia dei mercati quando, se si fossero erogati prontamente degli aiuti alle prime avvisaglie della crisi, probabilmente nulla sarebbe accaduto.
Poi, le politiche di austerità eseguite contemporaneamente in molti paesi hanno un drammatico effetto recessivo che vanifica i risparmi ottenuti, diminuisce il gettito fiscale, rende necessarie nuove correzioni in una spirale perversa potenzialmente infinita. Il meccanismo della “condizionalità” degli aiuti strozza l’economia dei paesi e gonfia sempre di più la quantità degli aiuti necessari, trascinanti tutti potenzialmente nel baratro. Inoltre, il mondo “avaro” di concedere aiuti, sempre in maniera inferiore alle necessità, così come l’acquisto “limitato” di bond da parte della BCE sono perfettamente inutili a dissuadere la speculazione che si ferma solo a una promessa di azione indefinita.
- [ad]La causa principale della bassa crescita del ventennio degli anni Novanta e Duemila risiede nel basso livello degli investimenti, che è anche all’origine del differenziale della produttività del lavoro tra Italia e altri paesi europei. Questa situazione ha cause molteplici: un problema culturale, una classe imprenditoriale che non crede nel paese e dunque non reinveste gli utili nell’attività, ma sopratutto la carenza di una vera politica industriale. Le privatizzazioni realizzate in maniera disastrosa e a prezzi stracciati negli anni Novanta hanno privato lo Stato di una leva importante e hanno tolto al paese una delle principali fonti di investimenti di lungo periodo. Nel passato l’industria pubblica, pur con tutti i problemi che erano progressivamente emersi, aveva svolto una funzione di supplenza nei confronti delle carenze della struttura produttiva nazionale, povera di grande imprese capaci di fare gli investimenti strategici che fungessero da volano per la crescita del paese. Le imprese pubbliche privatizzate nella maggior parte dei casi non hanno assolto adeguatamente ai loro compiti, come il caso Ilva dimostra plasticamente.
- La relativamente bassa qualità della classe dirigente politica attuale deriva anche dalla sistematica svalutazione che della politica è stata compiuta da molti anni. L’antipolitica diffusa e la pressoché unanime concentrazione sul problema-Berlusconi, nonché il continuo scadimento della qualità dell’informazione, hanno determinato un progressivo deterioramento della qualità del dibattito pubblico, una perdita di efficacia dei partiti e delle altre strutture di selezione della classe dirigente, un venir meno di un senso diffuso per il bene comune e l’interesse nazionale. Anche gli altri cronici problemi dell’Italia, come i problemi dell’amministrazione pubblica e le incrostazioni corruttive e malavitose non possono che essere affrontate a partire da un progressivo rinnovamento e innalzamento della qualità della classe dirigente nazionale, che passa sia da una riqualificazione del sistema educativo, sia attraverso un recupero della funzione dei partiti nella società.
(continua)