La crisi in Danimarca e le politiche neoliberiste. Intervista a Bruno Amoroso (Università di Roskilde)
“I paradigmi economici neoliberisti applicati in Danimarca hanno prodotto disoccupazione, una crescita delle disuguaglianze e, quindi un aumento del deficit pubblico”: è l’opinione dell’economista Bruno Amoroso, profondo conoscitore della situazione danese. Laureatosi in Economia all’università La Sapienza di Roma, il professor Amoroso ha insegnato per quasi quarant’anni in Danimarca, prima all’Università di Copenhagen poi all’ateneo di Roskilde, presso il quale è professore emerito.
Professor Amoroso, l’economia della Danimarca non gira più. Il paese è entrato e uscito più volte dalla recessione, il Pil oscilla intorno allo zero. Gli anni precedenti la crisi, caratterizzati da una crescita vivace, sono lontani. Quali sono i problemi dell’economia danese e cos’è che ne frena la ripresa?
[ad]L’ economia danese risente di alcuni dei problemi della crisi economica che riguardano anche gli altri paesi europei. Il che dimostra, indirettamente, che non è vero che la crisi italiana o spagnola o greca dipenda dal deficit di bilancio o dal debito estero, o da ritardi di produttività, fattori questi non presenti in Danimarca, e consente di individuare quali siano le vere ragioni della attuale crisi dell’economia europea.
La crisi in Danimarca è dovuta, come altrove, dalla restrizione del mercato interno provocata dalle perdite di reddito prodotte dalla rapina finanziaria che ha coinvolto anche alcune banche danesi e, quindi, i risparmiatori; dal calo dell’esportazione verso i mercati dell’Europa del sud causato dalla crisi economica e sociale. Queste due situazioni non sono nuove in Danimarca ma questa volta, contrariamente al passato, sono state affrontate con politiche a paradigmi economici neoliberisti che hanno prodotto disoccupazione, una crescita delle disuguaglianze e, quindi un aumento del deficit pubblico. La specificità del caso danese è che l’applicazione di politiche europee al mercato del lavoro – con lo strumento neoliberista della flexicurity – ha destabilizzato gli effetti virtuosi che il modello danese della flessibilità e della sicurezza avevano prodotto. Il modello danese – nel quale la flessibilità era la libertà del lavoratore di spostarsi da un luogo ad un altro alla ricerca della propria soddisfazione professionale, e la sicurezza era la copertura garantita di una parte consistente del reddito personale – produceva l’effetto di una concorrenza positiva tra gli imprenditori per offrire alla propria manodopera condizioni migliori di lavoro e di salario. La flexicurity ha capovolto questa situazione e la flessibilità è la libertà di licenziare e la sicurezza è il condizionamento crescente da parte del datore di lavoro di imporre condizioni di lavoro e salari “competitivi” a carico del lavoratore. I risultati sono noti. Il numero delle persone passate dalla condizione di disoccupazione a quella di espulsione dal mercato del lavoro (redditi di trasferimento del pubblico) è cresciuta nel corso di un anno di oltre 10.000 unità. Questo avviene tuttavia in un contesto nel quale l’economia danese ha potuto avvantaggiarsi della protezione rispetto ai fenomeni speculativi sulle monete offertagli dal fatto di aver conservato la propria moneta nazionale, ed ha potuto attutire i disastri sociali provocati dalla crisi grazie alla autonomia che la sua posizione fuori dall’euro consente rispetto alle politiche distributive interne, le politiche sociali, ecc. Quello che gli economisti critici, non di sistema, chiedono in Danimarca è che il governo abbandoni l’approccio neoliberista della politica economica, e trasformi il proprio legame monetario con l’euro da un cambio rigido come l’attuale in un cambio flessibile, come nel caso della Svezia, riacquistando così maggiore spazio di manovra per le politiche a favore dell’occupazione.
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