Le responsabilità di Ankara nel conflitto siriano
Le proteste scoppiate in Siria contro il regime di Bashar al-Assad a metà marzo 2011 si sono trasformate, nell’arco di un anno e mezzo, in una cruenta guerra civile. Le stime delle vittime sono varie, ma si può certamente parlare di un numero totale intorno ai 20 mila morti, di circa 150 mila i rifugiati in altri paesi (Turchia, Libano e Giordania) e tra gli 1 e i 2 milioni di sfollati. Chi sarebbe potuto intervenire politicamente in maniera più convinta per evitare una tale escalation? Molteplici sono gli attori internazionali interessati dalle evoluzioni della crisi siriana; ma la Turchia più di tutti partiva da una condizione favorevole che non ha saputo sfruttare. Come mai?
Il conflitto siriano è molto più di una guerra civile. La Siria rappresenta la chiave di volta dello status quo medio-orientale, forse l’ultima vera pedina della Guerra Fredda. Per questo la sua (in)stabilità è oggetto di attenzioni a livello globale.
Isolare Teheran
[ad]Nell’amministrazione americana di Obama sono in molti a sperare (e forse nascostamente anche ad agire) che il regime di Bashar al-Assad cada, privando l’Iran di un fedele e prezioso alleato. Teheran si troverebbe così ancora più sola e più debole nella sua retorica anti-occidente e nel suo progetto di sviluppo dell’arma atomica. Un tale scenario sarebbe ben visto anche da Israele, i cui piani di attacco preventivo ai laboratori dove l’Iran sta lavorando all’arricchimento di uranio sono stati di recente oggetto di un clamoroso ‘leak’.
I timori di Mosca
La Russia è sostanzialmente contenta dell’attuale status quo. Per questo usa il suo potere di veto al Consiglio di Sicurezza Onu contro qualsiasi iniziativa di maggiore incisività. Rischia di perdere l’unica base della sua marina militare rimasta in un mare caldo e al di fuori del territorio russo (Tartus in Siria appunto); rischia un contagio di estremismo settario sunnita in caso di ricostruzione post-bellica come accaduto in passato in Afganistan e Cecenia; potrebbe rischiare la perdita del monopolio di forniture di gas all’Europa qualora l’Iran, in posizione più debole, decidesse di venire a patti con l’Occidente intavolando qualche forma di collaborazione economica.
Gli interessi sauditi
Arabia Saudita e Qatar sono i veri finanziatori militari dell’Esercito Libero Siriano. Sunniti ultra-ortodossi (wahhabiti) vedono nella Siria una tappa della loro campagna contro gli ‘infedeli’ sciiti, oltre che l’opportunità economica di far crescere il prezzo del greggio data l’instabilità dell’area.
La Turchia cerchiobottista
Nel mezzo di queste posizioni ed interessi si trova la Turchia. È il paese che sta soffrendo di più il problema dei rifugiati (70 mila); ha perso due militari dell’aeronautica, anche se gli stessi turchi non hanno idea di come e chi li abbia abbattuti; hanno subito un danno di immagine politica a causa della scarsa considerazione degli alleati e degli organismi internazionali, come dimostrano la blanda condanna Nato per l’abbattimento di un caccia di un paese membro e la scarsa convinzione con cui gli Usa hanno inoltrato all’Onu la proposta turca di istituire una zona cuscinetto in territorio siriano al fine di dare assistenza ai rifugiati. Eppure per ragioni storiche, economiche e politiche, senza considerare l’amicizia che legava il primo ministro turco Erdogan ed il presidente siriano al-Assad, la Turchia era la principale candidata ad un ruolo di mediazione tra le parti in conflitto. Non a caso l’opposizione siriana (Syrian National Council) da subito ha fatto di Istanbul la sua base.
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[ad]Tuttavia, all’inizio del conflitto il governo turco ha puntato tutto sulle sue relazioni, istituzionali e personali, col governo siriano. Ma se è vero che da un lato l’opposizione siriana si presentava molto frammentata, incapace quindi di offrire un chiaro ed affidabile interlocutore, la scelta di dialogare esclusivamente con al-Assad è stata voluta con coscienza da Ankara. Quando poi al-Assad si è invece dimostrato un cruento Rais e l’Esercito Libero Siriano un attore militarmente efficace, era ormai troppo tardi per cercare una mediazione per la quale nessuna delle parti in conflitto era più disponibile. Con un deciso ma repentino cambio di rotta, la Turchia ha quindi deciso di supportare gli insorti, offrendo loro riparo in territorio turco e garantendo loro l’accesso alle armi saudite.
Tale sostegno molto probabilmente non ha provocato solo l’abbattimento dell’aereo militare turco, ma sta anche dietro l’escalation di violenza di tipo terroristico che si sta verificando di recente nel sud-est del paese. L’ultimo attentato a Gaziantep ha fatto nove morti e sessanta feriti. E le ritorsioni, non solo guidate dall’agonizzante regime di al-Assad, ma soprattutto dai gruppi terroristici legati allo Sciismo come Hezbollah, non potranno che intensificarsi in futuro. Un tale stato di caos aprirebbe inoltre nuovi spazi per azioni violente del tradizionale spauracchio turco, il Pkk, che però ha immediatamente preso le distanze dall’autobomba di Gaziantep.
La Turchia, che poteva vantare una posizione intermedia tra tutti gli attori internazionali nella gestione della crisi siriana, non è riuscita a valorizzare tale potenzialità. Questo scegliendo di schierarsi nettamente prima per una soluzione che non eliminasse completamente al-Assad ed in seguito al contrario sostenendo i suoi più fieri oppositori. In questo modo Ankara non è mai riuscita a dare di sé l’immagine di una terza parte arbitra e neutra nel conflitto. Le conseguenze sono state una perdita di credibilità e autorevolezza tra i suoi alleati e tra la popolazione siriana, ma soprattutto l’essersi esposta alle azioni di ritorsione violenta dei sostenitori di una o dell’altra fazione. Il risultato è che in Siria le violenze non si fermano e le vittime aumentano di giorno in giorno.
di Sebastiano Sali