La distruzione di una magia, di un equilibrio fra relazioni e opposizioni all’interno della città simbolo del mondo intero. Di questo scrive Dzevad Karahasan ne Il centro del mondo. Scrive della sua Sarajevo assediata e distrutta dalla ferocia dell’Esercito popolare Jugoslavo. Scrive per mettere ordine al caos di quei mesi, come si legge nella prefazione di Slavenka Drakulice per salvare almeno il ricordo di quella città che ha significato per secoli “vita comune di nazioni, religioni e convinzioni diverse”.
Sarajevo diventa metafora del mondo anche attraverso una lettura “geografica” della sua struttura. All’interno della scala della città si possono infatti individuare le stesse dinamiche che, su scala globale, caratterizzano, appunto, la globalizzazione: in entrambi i casi “l’universale e il particolare, l’aperto e il chiuso, l’interno e l’esterno, si riflettono continuamente l’uno nell’altro”. Assistiamo da un lato a processi di unificazione culturale e dall’altro a spinte alla differenziazione. Su scala globale questo rimarcare le diversità diventa di volta in volta valorizzazione delle caratteristiche peculiari di un popolo, di una regione, di una cultura (come nella Sarajevo in “tempi di pace”) o esasperazione delle differenze, fucina di conflitti (come per i processi che hanno portato alla distruzione della capitale bosniaca): sono due facce dello stesso fenomeno. Karahasan sintetizza così questo dualismo: “Il rapporto essenziale fra gli elementi del sistema è la tensione che gli oppone (…) ogni tessera entra nella struttura del sistema arricchita di nuove particolarità senza abbandonare quelle che già possedeva”.
L’autore, inoltre, individua alcune entità fisiche che simboleggiano la doppia tendenza all’uniformazione e alla differenziazione. La struttura stessa della città spiega il modo trovato dai Sarajile per convivere: “Il centro commerciale della città, la Carsija si stende sul fondo pianeggiante della conca, mentre intorno, sulle pendici delle montagne, sono cresciuti i quartieri dove la gente abita che si chiamano mahale. In questo modo il centro è doppiamente separato dal mondo: dalle montagne che circondano la città e dalle mahale”, formando così un microcosmo in cui c’è, in realtà, tutto il mondo.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)
[ad]Nella Sarajevo di Karahasan la vita quotidiana di ciascun individuo si svolge in due parti distinte, la prima è il centro, luogo di negozi, attività commerciali, sede del Governo e del Parlamento che “rimuove le differenze fra chi appartiene a culture diverse, perché li rende uguali in ciò che hanno in comune, di universalmente umano”. La seconda sono i quartieri, le mahale poste a raggiera attorno al centro e separate dal quartiere confinante: Vratnik quella musulmana, Latinluk la cattolica, Taslihan quella ortodossa e Bjelave quella ebraica.
Il quartiere è il luogo in cui la propria identità viene riaffermata con forza dopo essere stata “riconosciuta” nell’incontro con l’alterità, perché, spiega Karahasan, “l’apertura della cultura bosniaca allo sguardo dell’altro non deriva da una mancanza di identità o da una debole coscienza della propria identità, ma dalla disponibilità a riconoscere allo sguardo dell’altro rilevanza e fondatezza”. È questo che permette l’esistenza della Sarajevo multietnica e polivoca.
Ma la contrapposizione fra “aperto e chiuso si può vedere da tutti i punti d’osservazione possibili della città”, a cominciare dalle case degli abitanti di Sarajevo: la facciata è sì chiusa, ma permeabile, attraverso cui entrano gli ospiti, il cibo, attraverso cui si va a lavorare e c’è uno “scambio” con il resto del mondo. Discorso opposto invece per il retro della casa, “tecnicamente aperto ma semanticamente chiuso” che, cioè, si apre verso il verde delle montagne ma dal quale non entra né esce nessuno in casa, da cui il mondo non entra né qualcosa esce per confondersi nella moltitudine.
Altro aspetto di questa opposizione fra il mescolamento multiculturale e la chiusura nel privato Karahasan lo individua nella tradizione gastronomica bosniaca: è la differenza fra il cevap, piatto di carne che si consuma all’aperto, in compagnia, in luoghi pubblici e i dolme, sorta di fagottini di verdure varie ripieni di carne, riso o altre verdure, tipico piatto “chiuso”, casalingo, intimo.
Ci sono poi luoghi in cui è difficile separare l’aspetto globale e di confronto, e quello di chiusura e ripiegamento interiore: è il caso dell’Hotel Europa di Sarajevo, “centro tecnico della città, si trova esattamente al confine tra la parte turca e quella austroungarica”, ma più che un confine è un’interfaccia fra due mondi, una soglia “un posto contemporaneamente dentro e fuori, luogo che appartiene a quello che circoscrive ma è, al contempo, qualcosa di completamente diverso da esso”. È qui, in questi luoghi, che si manifestano le due facce del “centro del mondo” e del mondo stesso, perché il pubblico e il privato, l’aperto e il chiuso, l’universale e il particolare o locale, la spinta all’unificazione e quella alla differenziazione, l’esaltazione del “villaggio globale” e quella dei valori locali, “si riflettono continuamente l’uno nell’altro”. Ciò vale tanto nella Sarajevo prima dell’assedio quanto nel mondo globalizzato, nessuna delle due realtà esisterebbe senza entrambi gli aspetti.
Ma questa magia, quest’equilibrio si è rotto nella Jugoslavia di inizio anni novanta, Karahasan ce la racconta da Marindvor, il suo quartiere nel cuore “globale” di Sarajevo: “Marindvor è simbolo, a sua volta, della città con la moschea Maghribia, la chiesa di san Giuseppe in stile austro-ungarico, l’edificio Haliddvor che testimonia la ricerca di uno stile bosniaco e i palazzi in vetro acciaio del Parlamento e del Governo. (…) E poi iniziò la guerra che tutto questo voleva dividere: nel progetto estetico dei generali non possono stare uno accanto all’altro qualcosa di turco di austroungarico e jugoslavo, islamico, cattolico e comunista”.
[1] Dalla prefazione di Slavenka Drakulic
di Matteo Acmé