Centoquarantamila uomini in armi, sotto il vessillo con la mezzaluna. Dalla metà di luglio cingevano d’assedio la città, atto finale di quelle guerre austro-turche che avevano portato le truppe del sultano Maometto IV° fin nel cuore d’Europa. Alla guida di quel possente esercito il gran visir, Kara Mustafa, una sorta di primo ministro dell’epoca che ripercorse le gesta di Solimano il magnifico conducendo i turchi da Istanbul a Belgrado, Budapest e infine Vienna. Già, Vienna, la capitale dell’impero asburgico, s’apprestava a cadere. Nel mese di settembre del 1683 Kara, il “nero”, aveva già conquistato parte delle mura. Era questione di settimane e Vienna sarebbe caduta. Truppe tartare razziavano le campagne, eserciti del Khan di Crimea attaccavano i contingenti in fuga dalla capitale, tagliando le comunicazioni.
[ad]I turchi non avevano cannoni moderni, ma eccellevano nella guerra di mina. Una dopo l’altra minarono le mura e i bastioni, conquistarono le posizioni sul torrente Wien, e piazzarono le loro truppe d’èlite di fronte alle porte della città. Il panico prese gli assediati. La corte imperiale e gli ambasciatori fuggirono. L’imperatore stesso lasciò Vienna da sola rifugiandosi a Passavia. Solo il conte Ernst Rüdiger von Starhemberg, feldamaresciallo dell’impero, rimase a difendere la città con appena ventimila uomini sempre più prostrati dalla fame e dalle epidemie. A Passavia l’imperatore, sotto l’egida di Papa Innocenzo XI°, trovò alleati. La Lega Santa, composta da Venezia, Savoia, Spagna, Portogallo e Polonia, organizzò un esercito multilingue e litigioso. Il comando su affidato a Jan Sobieski, re di Polonia.
Un cronista turco, alla vista dell’esercito di Sobieski, scrisse: “Gli infedeli spuntarono sui pendii con le loro divisioni come nuvole di un temporale, ricoperti di un metallo blu”. Le truppe di Sobieski, benché in inferiorità numerica, vinsero la battaglia. Era l’11 settembre 1683. A quella vittoria seguirono la liberazione di Belgrado, Budapest, e la conquista della Transilvania. Il re polacco “salvò” l’Europa. E l’Europa, pochi anni dopo, per ringraziamento si spartirà la Polonia costringendola a secoli di persecuzioni.
Quell’11 settembre fu descritto dai cronisti cristiani come uno scontro di civiltà. Il turco non fu solo l’infedele ma la stessa rappresentazione del male, del nemico irriducibilmente diverso. La costruzione del mito dell’alterità turca insisteva sull’ideologia di crociata, lontana ma non sopita. Un’ideologia che prefigurava nelle battaglia contro gli infedeli, l’armaggedon. Anche la battaglia di Vienna fu narrata, dai vincitori, attraverso metafore escatologiche. La persistenza dell’alterità del “turco” o del “moro” rispetto alla cultura europea è tale da non aver perso d’attualità (basti pensare a chi si oppone all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea). Eppure, allora come oggi, sembra priva di fondamento.
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[ad]Franco Cardini, uno dei migliori storici italiani, è autore di due libri significativi in tal senso: “Il turco a Vienna – storia del grande assedio del 1683” e “Europa e Islam, storia di un malinteso“. Scrive Cardini: “La battaglia di Vienna non fu determinante ma ebbe un alto valore simbolico, anche se fosse stata vinta dai turchi non avrebbe cambiato il corso della storia. Anche se la città fosse caduta – dice Cardini – non credo sarebbe cambiato poi molto. Era una grande partita di giro in cui vittorie e sconfitte si alternavano spesso”.
“I turchi – sostiene Cardini – non rappresentavano tutto l’Islam e ogni volta che erano in guerra con l’Occidente, l’impero persiano ne approfittava. E quando i turchi attaccavano via mare la Spagna o Venezia, gli Asburgo d’Austria tiravano un gran sospiro di sollievo… Viveceversa, quando i turchi attaccavano via terra gli Asburgo d’Austria, Venezia e la Spagna non erano così dispiaiuti. E i francesi? Sempre pronti ad allearsi con la Sublime Porta”.
Come a dire che il nemico dell’Europa era, ed è, la divisione interna. E al di là delle retoriche sull’alterità esistevano rapporti diplomatici, commericali e culturali col mondo islamico. Esistevano già al tempo delle crociate, come durante l’avanzata ottomana in Europa. Così esistono oggi. “Noi proiettiamo sulle guerre dell’antichità l’ombra della guerra totale contemporanea. Ma questo è chiaramente sbagliato”, ha dichiarato Cardini in un’intervista rilasciata a East Journal. Eppure, dopo un altro e più recente 11 settembre, l’opposizione tra Islam e Occidente è venuta rafforzandosi. Le guerre “al terrorismo” si sono accompagnate al terrorismo di chi “muove guerra” all’Islam delle nostre città, minando alla base quella convivenza e quegli scambi culturali che chiunque viva in una metropoli italiana non può ignorare. Come all’epoca dell’assedio di Vienna, i turchi non rappresentavano l’Islam, oggi le follie fondamentaliste degli emiri sauditi non rappresentano la cultura musulmana. Eppure nuove “leghe sante” e metafore escatologiche si sono messe in atto, retoriche neomillenariste per popoli soggiogati dalle retoriche mediatiche.
Oggi, undici anni dopo quell’11 settembre, assistiamo a forti sommovimenti nel mondo islamico. Rivoluzioni d’ispirazione coranica che nulla hanno di minaccioso per le nostre sponde ma che anzi vanno viste come ulteriore possibilità di crescita per il nostro vecchio continente. Una crescita fatta di strappi, relazioni contrastate, reciproche influenze e finte opposizioni. Finte, già. Buone solo per i retori e i cronisti al servizio dell’imperatore. Le due sponde del Mediterraneo hanno una storia comune. Più antica e decisiva, anche per il futuro, di quella che intercorre tra le due sponde dell’Atlantico.
di Matteo Zola