Ucraina: donne emigrate in Italia. Ma chi bada alle loro famiglie?

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Quando me ne lamentai con mia madre al telefono, lei mi disse “Lo so, è dura. Ma ricordati: prima di tutto tu sei una madre. Mentre tu sei lì, i tuoi figli qui hanno cibo da mangiare e denaro per pagare le rette dell’Università. Quindi, stringi i pugni e sopporta. Solo per amore dei tuoi figli (Tamara, Roma, 2009). [1]

[ad]In Italia l’80% [2] degli immigrati ucraini sono donne, principalmente impiegate nei lavori domestici o come assistenti familiari, meglio note come colf e badanti. Lasciano il loro paese soprattutto per i figli, reputando la migrazione per lavoro uno dei pochi modi, se non l’unico, di prendersi immediatamente cura di loro, provvedere ai loro bisogni primari e al loro benessere.  È l’impulso della maternità il primo motivo per andare a lavorare all’estero. Viene percepito una sorta di imperativo migratorio, che spinge le donne a sopportare e tollerare i rischi culturali e il dolore affettivo, che viene considerato il prezzo emotivo da pagare per il benessere economico dei propri figli. Tuttavia le conseguenze per i figli sono spesso l’opposto di quelle sperate, talvolta drammatiche, e anche le donne stesse hanno ripercussioni negative, all’estero e una volta rientrate.

 

Se si considera che la migrazione riguarda tra il 10% e il 20% della forza lavoro in Ucraina, è facile immaginare come, tenendo conto anche degli altri membri della famiglia, coinvolga quasi un terzo dell’intera popolazione, con effetti su tutta la società. La migrazione ucraina è in buona misura temporanea, e molte donne progettano di rientrare dopo qualche anno di lavoro, e quindi lasciano la famiglia al paese d’origine, anche perché, occupandosi delle nostre, difficilmente potrebbero prendersi cura anche della propria famiglia.

Ma gli effetti sono spesso opposti rispetto a quelli sperati: i bambini “left behind, lasciati a casa, subiscono un peggioramento nei risultati scolastici e nel comportamento, si sentono abbandonati dalla mamma, che a poco a poco viene considerata semplicemente una mamma-bancomat. Nelle situazioni di maggiore abbandono, per esempio quando non c’è neppure la figura del padre come riferimento, della nonna, o di altri parenti stretti, i bambini possono diventare l’obiettivo di gruppi criminali: eccessivamente ricchi e soli, cominciano ad assumere droghe e alcolici, diventano giocatori d’azzardo, vengono coinvolti in attività pornografiche fino al turismo sessuale.

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[ad]D’altra parte, anche per le madri stesse la migrazione può avere conseguenze difficili. Sorvoliamo qui sul grave peggioramento della loro condizione sociale: nella maggior parte dei casi si tratta di donne con un alto livello di istruzione, anche universitaria, che si adattano a lavori socialmente degradanti. In un’ottica di genere, le donne subiscono un primo shock culturale quando sono costrette ad accettare i cambiamenti dei figli nei loro confronti, i quali sono arrabbiati, distanti, spesso anche troppo piccoli per comprendere le necessità economiche della famiglia. Sono traumatizzate e stressate nel ruolo di “madri transnazionali”, si considerano “pseudo-mamme”. Al rientro tutto ciò si accentua ancora di più, quando le donne si accorgono di non avere più una famiglia – spesso i mariti si sono risposati –  oppure sono risospinte verso i ruoli femminili più tradizionali, in contrasto con quello più indipendente e di maggiore responsabilità che avevano cominciato ad assumere. Al punto che nel 2005, per la prima volta, Andriy Kyseliov e Anatoliy Faifrich, psichiatri a Ivano-Frankivs’k, diagnosticarono a due pazienti una nuova forma di depressione, successivamente definita “sindrome italiana”, che univa ai sintomi classici un affievolirsi del senso di maternità, profonda solitudine e una forte scissione dell’identità. Non era un caso se ciò avveniva tre anni dopo la grande sanatoria del 2002 che aveva permesso di regolarizzare molte lavoratrici domestiche: le prime donne cominciavano a tornare nei paesi di origine, probabilmente dopo aver guadagnato abbastanza.

Mentre il welfare del nostro paese si sostiene sull’immigrazione femminile, che ha consentito uno spostamento delle responsabilità domestiche e di cura dalle donne italiane a quelle straniere, senza chiamare in gioco né gli uomini né lo Stato, non solo il welfare stesso, ma soprattutto il benessere della società nel paese d’origine è fortemente intaccato. E poiché è irrealistico pensare che la migrazione femminile si fermi, perché i motivi di attrazione e di spinta permangono, è necessario interrogarsi sulla sostenibilità, tanto in Italia quanto nei paesi est-europei, del nostro (non) modello migratorio, e attuare nuove politiche che siano consapevoli delle sfide crescenti, invece che continuare a trattare il fenomeno migratorio come un’emergenza [3].

 Da East Journal

di Daniela Piazzalunga


[1] Citato in Tolstorova A., 2010. “Where have all the mothers gone? the gendered effect of labour migration and transnationalism on the institution of parenthood in Ukraine”, Anthropology of East Europe Review, vol. 28, n.1, pag.190.

[2] Dati al 1° gennaio 2011. Gli immigrati ucraini sono 218.000, oltre il 6% degli stranieri non UE regolarmente presenti in Italia.

[3] A luglio il governo Monti ha promosso una nuova sanatoria, passata abbastanza in sordina, aperta dal 15 settembre al 15 ottobre. Si tratta della settima regolarizzazione dal 1986 ad oggi, più di una ogni 4 anni.