Mario Monti ha deciso di ricandidarsi a guidare un esecutivo d’emergenza e di grande coalizione per dare una mano all’Italia. Su un paio di riviste di sinistra “Reset” e “Mondoperaio” è cominciata la raccolta di firme per consegnare un nuovo settennato a Giorgio Napolitano, la rivelazione è di “Pubblico”. Queste due notizie si tengono insieme e la seconda ha direttamente influenzato la prima.
[ad]A New York, all’assemblea generale dell’Onu il premier per la prima volta ha ammesso di non considerare in ogni caso conclusa l’opera di risanamento del paese da parte dei tecnici. Un ripensamento repentino, visto che appena 24 ore prima aveva negato qualsiasi interesse a riprendere in mano la guida del paese. La politica avrebbe dovuto riprendersi i suoi spazi – era la tesi di Monti prima di partire per gli Stati Uniti –, ma evidentemente la supplenza dei tecnici si incrocia ancora col destino politico di qualcuno. Per la precisione del presidente della Repubblica.
La condizione per cui un gruppo di economisti, di banchieri, di docenti universitari possa governare in un paese occidentale resta immutata: una chiamata in aiuto della politica tradizionale. Come avvenne nel novembre del 2011, quando il fine corsa di Berlusconi coincise con l’impossibilità di andare subito ad elezioni anticipate, causa spread. Il modo migliore per evitarle consisté nell’affidarsi ad un governo sopra le parti.
Una caratteristica a rischio deterioramento in caso di competizione elettorale. Soprattutto, una caratteristica resa possibile soltanto dalla scelta di affidare al Capo dello Stato la nomina del presidente del Consiglio, piuttosto che a un singolo partito o ad una sola coalizione. L’espressione in uso per descrivere questo scenario – dal vocabolario delle cronache parlamentari – è il “governo del presidente”.
Una formula che è stata spesso impugnata negli ultimi dodici mesi da una sinistra istituzionale a cui ha dato voce Eugenio Scalfari. “Sia seguita la stessa procedura anche per i prossimi governi” è stato lo sprone di chi vedendo solo frutti avvelenati nella seconda repubblica dell’elezione (quasi) diretta del premier da parte dei cittadini, vede un bilancio più roseo nel potere sostanziale di nomina da parte del Quirinale, nello stile della prima repubblica.
La trama parlamentarista potrebbe soddisfare presto Scalfari e non solo. La pressione per dare un nuovo settennato a Napolitano è soltanto il primo passo, che si accorda con le trattative per la riforma della legge elettorale. Per essere propedeutica a un intervento diretto del Colle per dirimere la formazione di coalizioni di governo è necessario che il voto non consegni maggioranze stabili e definite.
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[ad]Il sistema elettorale congeniale dovrebbe essere modellato sul caso Grecia: un premio di maggioranza modesto e riservato al primo partito, in maniera tale da asciugare quel tanto che basta le forze minori senza polarizzare troppo lo scontro e consegnando la sera delle elezioni uno scenario di stallo. Il “genio politico” di Napolitano incontrerebbe in questo caso il Pdl, che del modello greco si è fatto fautore per comprensibili motivi di bottega: la consapevolezza di perdere molti voti al prossimo giro e il desiderio di restare al governo con la metà dei voti del 2008.
Paradossalmente davanti a cotanta astuzia da parte della sinistra vicina a Napolitano e fedele ad una democrazia parlamentarista la maggiore insidia viene dal Pd. Fosse almeno per il fatto che il partito di Bersani sta lavorando al mantenimento di un premio di maggioranza assegnato alla coalizione e non alla lista. Vuoi perché dal 13 settembre un camper in giro per l’Italia raccoglie da nord a sud il pieno di pubblico, toccando una corda molto sensibile dell’orgoglio democrat: “Non essere stati in grado di andare al governo una volta caduto Berlusconi è stata un’umiliazione”.