La sottile differenza tra Monti e il montismo

Pubblicato il 1 Ottobre 2012 alle 17:07 Autore: Livio Ricciardelli
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Le dichiarazioni newyorchesi di Mario Monti hanno catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica sui futuribili scenari politici ed istituzionali nel nostro paese.

Quel “se me lo chiedono potrei pure restare” va in primo luogo contestualizzato. La platea a cui si rivolgeva il premier italiano era piena zeppo di imprenditori made in Usa, private equity e investitori internazionali. Gente che non solo, come nella cancelleria berlinese, teme un ritorno di Berlusconi alla guida del paese. Ma che riconosce in Monti un argine contro la crisi in corso nell’Eurozona. Proprio perché affidabile e in grado di varare riforme di carattere strutturale nel nostro paese.

[ad]In questo senso la mossa di Monti è quanto mai politica: ha assecondato i desideri dei suoi interlocutori pronunciando una frase che non poteva che rendere felice il suo pubblico.

Nonostante tutto appare quanto mai inverosimile una discesa in campo di Monti e il “potrei pure restare” si riferirebbe o all’opportunità di salire al Quirinale o di mantenere la guida del governo nel caso di una situazione di totale ingovernabilità.

Il tema dunque in questa fase non è tanto “Monti sì, Monti no” bensì “montismo sì, montismo no”.

La vera sfida del paese è proprio questa. E le forze politiche ne devono trarre le dovute conseguenze.

E’ ovvio che un mantenimento dello status quo con un governo Monti composto da soli tecnici è di difficile realizzazione. Il tema dunque cosa farne delle riforme di questo esecutivo e soprattutto come un governo politico dovrà rapportarsi al lavoro dell’esecutivo precedente.

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Un equivoco che del resto non poteva che sorgere sin dai tempi in cui si discettava sul collocamento politico del presidente del consiglio. Già la nomina di Monti a senatore a vita avrebbe dovuto allontanare il varesotto da dispute nominalistiche di questo tipo. Che tra l’altro non aiutano per nulla a comprendere le reali motivazioni che spinsero il Capo dello Stato a nominare il Professore capo del governo col consenso degli allora tre poli parlamentari.

Monti doveva, e dovrà atteggiarsi in questo modo fino alla scadenza naturale della legislatura, “salvare il paese” e avviare delle riforme che avrebbero reso il paese a pieno titolo “al passo coi tempi”. In quest’ottica la legge sulla previdenza e il lavoro che si sta facendo per l’azzeramento, discusso in sede europea, del nostro rapporto defitic/Pil.

A seguito di questa “nuova base” non poteva che sorgere un nuovo bipolarismo. Nuove proposte politiche che potevano reggersi su basi più solide. Proprio perché conseguenti ad un governo non impaurito del calo del consenso popolare (problema che tra l’altro non si è posto).

Per certi versi lo spirito che ha animato le forze politiche nel loro sostegno a Monti non è troppo dissimile da quello che, soprattutto nel 2006, spinse il centrosinistra a riproporre Romano Prodi alla guida del paese.

Un politico sì, ma anomalo, con un background più professorale o da grande manager di stato.

L’Italia, così inguaiata dal quinquennio Berlusconi, meritava una fase di assestamento in cui dopo cinque anni sarebbe tornata in campo più marcatamente la politica (le proposte su un ipotetico e promettente ticket di governo Veltroni-Letta). Lo stesso Prodi non poteva che dichiarare in quel frangente che dopo cinque anni sarebbe iniziata una nuova fase.

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L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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