L’ascesa dell’homo economicus e la crisi della politica
Una delle cause della crisi della politica risiede nel fatto che abbiamo pensato l’agire politico in analogia a quello economico.
Così come l’agente economico deve cercare di massimizzare il suo profitto, allo stesso modo -si pensa- il politico (sempre concepito individualmente, come singolo leader) deve massimizzare il suo consenso. Da qui nasce l’enorme importanza assunta negli ultimi decenni dai sondaggi come punto di riferimento ultimo delle scelte, come criterio di valutazione di esse e come fonte di ispirazione politica.
[ad]L’andamento dei sondaggi rappresenta per il politico “razionale” (di quella razionalità propria dell'”agente razionale” della teoria economica) quello che gli andamenti di un titolo di un’azienda in borsa rappresentano per colui che la dirige: una sorta di plebiscito permanente.
La vittoria delle elezioni poi non rappresenta tanto un mezzo per realizzare un determinato programma politico, quanto un sistema per accrescere e mantenere il consenso. Analogamente a quanto avveniva nel campo economico, questo processo portava alla perdita di qualunque orizzonte di lungo termine, di qualunque progettualità di ampio respiro. Il fatto che ogni politico di ogni livello si considerasse parte di una competizione illimitata per il potere, e che questa competizione non incontrasse dei limiti in convinzioni ideali, se da un lato apparentemente ha reso universale la politica, come lotta per il potere, dall’altro ha reso impossibile la Politica, come governo e gestione dei processi secondo un disegno coerente.
Sia chiaro, il potere è l’elemento della politica ed essa non può farne a meno: diventerebbe astratta e velleitaria. Ma il limite tra buona e cattiva politica sta nel fatto che la prima fa uso del potere per realizzare qualcos’altro, la seconda lo persegue come fine in sé. Quando si accetta questo secondo principio non si può mettere più nessun argine al proliferare dei vari Fiorito: essi agiscono coerentemente secondo questa idea di politica.
Ma non bisogna pensare che a questa degenerazione della politica si possa rispondere con una critica moralistica. La “moralità” (ma sarebbe meglio dire l’etica) della politica è qualcosa che si esplica secondo parametri molti diversi rispetto a quelli degli individui.
Il grande politico non è un santo o un eroe. Anche il grande politico vuole essere apprezzato, vuole riuscire. Ma quello che cerca non è il successo o il consenso a breve termine, ma la gloria. Lo statista misura se stesso e la sua azione sulla scala dei processi storici, non del giorno per giorno. Per questo il grande politico non esiste senza una visione del mondo, senza un’interpretazione cioè, dei tratti fondamentali del tempo presente, dei suoi caratteri essenziali, delle sue linee di tendenza. All’interno di questo quadro, concepito non in maniera statica, ma come un insieme dinamico aperto a diversi esiti, il politico vuole agire e determinare la realtà in una certa direzione, lottando contro altri che invece vorrebbero imporgli una direzione diversa. Questa è la vera posta in gioco nella politica: la possibilità di scrivere la storia in un certo modo piuttosto che in un altro.
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