Da “Tutti per l’Italia” a “Pochi per l’Italia”: il senso di sconfitta dei leader del centrodestra

Fini, Alfano e Casini

Immaginiamo per un momento di vedere coronato il sogno di Giuliano Ferrara: Berlusconi, Maroni, Fini e Casini di nuovo uniti e alleati. A dispetto della denominazione “Tutti per l’Italia” – l’etichetta suggerita dalle colonne del Foglio – il ressemblement che nascerebbe sarebbe ben poco espressione di una vocazione ultramaggioritaria, bensì di minoranza strutturale in procinto di perdere le sue ultime piazzeforti.

[ad]Facendo la somma dei singoli partiti appartenenti all’ex Casa delle Libertà scavalcherebbe a fatica il muro del 30%, attestandosi al 31,9%. Cinque punti in meno del risultato del solo Pdl nel 2008, quindici in meno dell’alleanza con Lega Nord e Mpa che consentì a Berlusconi di prendersi la più ampia maggioranza parlamentare immaginabile. Rispetto al 2008 poi il centrodestra formato maxi perderebbe sulla carta 25 punti percentuali. Dieci milioni di voti.

 

È trascorsa un’era geologica sarebbe l’obiezione da contrapporre, richiamando l’effetto-tsunami della grande recessione, lo spread ecc. Peccato che raramente venga fatto notare con la necessaria spietatezza quanto il travolgimento dello schieramento moderato sia figlio, in primo luogo, di una crisi d’autorevolezza di ogni esponente-padre del centrodestra italiano. Potrà sembrare inclemente ai militanti dei rispettivi partiti che, essendo usciti chi da 4 chi da 2 anni dal patto di potere con Berlusconi, pensavano di poter essere i pionieri della nuova storia dei moderati e dei conservatori in Italia.

Una speranza smentita dal sentiment degli italiani fotografato da Ipsos: alla speranza fa da contraltare una realtà da catrastrofe. Con una mancanza di credibilità che attraversa ogni versante di quello che fu un tempo il primo Polo italiano. Per accertarla possiamo prendere gli elettori come i migliori diagnosti della malattia tanto del berlusconismo quanto dell’esperimento degli ex centrodestra, Casini e Fini di dar vita al Terzo Polo. Sulle intenzioni di voto la panoramica è stata esplorata a sufficienza da Giuseppe Martelli e già basterebbero a considerare segnata la sorte di sconfitta per ognuno dei potenziali leader del ressemblement dei moderati.

Sullo stato di salute gli italiani esprimono giudizi ancor più tranchant e fanno emergere un’idea cristallina: il Pdl è il partito in crisi per definizione (lo pensa il 46% del campione interpellato da Ipsos), subito dopo viene la Lega Nord (fra i partiti presenti viene ritenuto il più in crisi dal 5% degli italiani). L’unica a difendersi è l’Udc (secondo il 4% degli italiani rappresenta il movimento più in salute). Futuro e Libertà, invece, è confinata alla marginalità. Il consenso stazionario al 2,5% paventa il pericolo di non rientrare in Parlamento per via degli attuali meccanismi di sbarramento del Porcellum, difficilmente raggiungibili con l’elettorato fidelizzato dal Terzo Polo.

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[ad]Fermiamoci su quest’ultimo litorale della politica. Perché ancor prima di nascere politicamente con la consacrazione nelle urne il Terzo Polo da nuovo e alternativo centrodestra si è trovato ben presto sperduto. Sprovvisto di una rotta e di un nocchiero. Tanto da essere periodicamente buttato a mare da Casini – in questo vero decision maker della compagnia – nei giorni di dialogo con Bersani e ripescato nei giorni di rottura.

La dinamica di oscillazione da un Polo all’altro e il salto da una strategia all’altra porta con sé un grande senso di incoerenza. Per logica conseguenza il Terzo Polo a trazione casiniana inizia a essere visto come esperimento tenuto insieme solo con l’adesivo della furbizia e del desiderio di salvare delle carriere politiche. Implacabile il verdetto del quesito a proposito della lista unificata Fli-Udc per sostenere il Monti bis: per il 64% è solo un’operazione di facciata.

Sarebbe sufficiente questo dato a seppellire ogni discorso sulla bontà della presenza in campo di Casini e Fini. Se non fosse che Ipsos dragando ulteriormente il fondale dell’elettorato disaffezionato dal berlusconismo ha chiesto a questo una reazione – in termini di intenzione di voto – nel caso in cui l’ex premier dovesse essere di parola, magari per spalancare la porta alla riunificazione del centrodestra. Il 28% non andrebbe a votare, il 30% si schiererebbe con la coalizione di centrosinistra guidata da Bersani.

A conferma che se proprio fossero “per l’Italia” Berlusconi o Alfano, Fini, Casini e Maroni si troverebbero a far appello a ben “Pochi” piuttosto che a “Tutti”.