Dal Blog: Il mio mistero

Pubblicato il 13 Ottobre 2012 alle 12:15 Autore: TP Racconti

Da tempo volevo andare a visitare la tomba di Lucio.

Avrei soltanto dovuto prendere la macchina e, in un qualsiasi momento di un sabato o di una domenica, farmi una gita fuori Milano verso il cimitero di Molteno. C’era però sempre qualcosa che mi faceva rinunciare. Dovevo addentrarmi nella “Brianza velenosa” da lui cantata, che lo aveva infine custodito e protetto da tutti. Superare sulla Milano-Meda i chilometri dei capannoni senz’anima dei mobilifici, per poi prendere uno svincolo e proseguire in mezzo a campi, boschi e casette che sembrano fatte con i Lego. Attraversare un paesaggio di benessere, Suv, strisce pedonali, dossi rallentatori, telecamere di videosorveglianza. Ok, forse stavo esagerando: ma la sensazione delle poche volte che mi ero avventurato in zona era sempre questa.

E poi, c’era la lotta tra il voler omaggiare l’artista immenso e il voler rispettare il suo, anche ossessivo, desiderio di riservatezza. Suo o ancor più di sua moglie non si sarebbe mai saputo, né m’interessava. Lucio era stato la mia colonna sonora lungo tutta la preparazione per sostenere l’esame da giornalista. I suoi brani mi facevano sopportare la ripetizione delle pagine e pagine di diritto pubblico, storia del giornalismo, codici deontologici. Soprattutto i “dischi bianchi”, quelli scritti con Panella che tanto irritavano i puristi degli album in coppia con Mogol. A me, invece, avevano conquistato. Erano il frutto di un uomo che aveva voluto spingersi oltre il successo travolgente di salami dai capelli verderame e cose che scopriremo solo vivendo.

E oggi, finalmente, in un’afosa domenica d’estate, capisco di volerci andare davvero.

Molteno è esattamente come mi aspettavo. Ville bunker distanziate da casette più modeste. Pochi cartelli per orientarsi. Quasi nessuno per strada. E’ primo pomeriggio e il caldo è insopportabile, anche qui ai piedi delle colline. Supero il centro del paese, con qualche bella via lastricata in pavé e un paio di osterie aperte. Arrivo alla stazioncina e scorgo poco più avanti il cimitero. Posteggio. Le altre auto si contano sulle dita di una mano. Il cancello d’ingresso è semiaperto. Cammino piano sulla ghiaia per fare meno rumore possibile. Arrivo al perimetro lungo cui si stagliano le tombe di famiglia, che ai miei occhi sembrano identiche le une alle altre. Una ragazza e un paio di signore stanno porgendo fiori sulle tombe dei loro cari. Nemmeno mi notano o forse fingono di ignorarmi. Sono io che mi sento un perfetto idiota che inizia a fare il giro delle tombe per trovare l’unica che mi interessa. E forse, se non avessi finalmente notato un foglio di carta con dei disegni annodato al pomello di una porta a vetri, non l’avrei mai trovata.

La tomba di Lucio è la più semplice e anonima possibile. Un parallelepipedo di cemento e una porta di vetro scuro. Sul pomello, appunto, un foglio con la dedica e le firme di un suo fan club. Mi avvicino al vetro perché il riflesso del sole accecante non rivela l’interno. La porta è, giustamente, chiusa. Poggio quasi il naso sul vetro e vedo un’unica lapide con incisi soltanto il nome di Lucio e le date di nascita e morte. Ai piedi, il pavimento è un tappeto di bigliettini, ritratti a pennarello, lettere. Come nemmeno la tomba di Jim Morrison a Parigi. Questo disordine mi disturba: non mi piace che chiunque possa buttar dentro un qualsiasi pezzo di carta, senza il minimo rispetto per Lucio, ma mi piace ancor meno che nessuno pensi a sistemare quel casino. E’ come se Lucio fosse stato abbandonato lì, in una tomba qualunque di un cimitero qualunque senza la minima cura.

Poi, tra le centinaia di fogli, ne vedo uno più grande, diverso dagli altri e ben leggibile: “Il mio mistero è vivere la vita”.

Chissà, forse queste parole tratte da Una donna per amico non spiccano per caso nella tomba. Possono essere il simbolo di un uomo come Lucio che, è vero, si era isolato dal mondo, ma ha voluto vivere fino all’ultimo, accettando qualsiasi trattamento sul suo corpo per sconfiggere la malattia. Possono essere il simbolo della sua famiglia che continua a vivere e che, certamente, continua a portarlo nel cuore senza per forza passare dal cimitero ogni giorno. A me piace pensare che quel foglio sia stato messo in evidenza a memoria di un artista inavvicinabile che in pochi han conosciuto nel profondo; come un regalo inaspettato a chi viene a omaggiarlo; come un’unica, ma grande, concessione all’amore di chi ascolta le sue canzoni e le conosce una per una.

“Che mistero è la vita, che mistero sono anch’io”, cantava ancora lui.

Torno verso l’auto soddisfatto. Pronto a vivere quel mistero che è la vita.

di Davide Valenti