A Bettola Bersani volta le spalle al futuro, cosa non va della sua campagna
Immaginate Pierluigi Bersani che, nel discorso di inaugurazione della sua campagna per le primarie, si rivolge a un migliaio di persone, giunte da molte parti del paese per ascoltarlo e incitarlo, dando loro le spalle. Il palcoscenico è ovviamente orientato geograficamente verso gli spettatori, ma il leader parla in direzione opposta sia rispetto ai suoi militanti che ai microfoni correttamente montati qualche ora prima dell’inizio. Diamo alla stampa questa istantanea e, probabilmente, avremo la sintesi più veritiera dei quaranta minuti di intervento del segretario del Partito Democratico in quel di Bettola.
[ad]Fuori da quella analogia i microfoni sono i media e più in generale ogni mezzo di comunicazione, che per dare grande appagamento chiede in cambio di essere corteggiata con un lessico adeguato, i suoi spettatori sono in senso ampio gli elettori.
Di per sé quella di Bettola non è stata neppure l’esibizione peggiore di appeal verbale (e non verbale), stamane si è visto un lavoro sui simboli denso di significato: la prima tappa del suo tour elettorale al Cern di Ginevra, fondato dal compaesano Edoardo Amaldi di Carpaneto (nel piacentino) e dove lavorano alcune delle migliori menti italiane. E in particolar modo c’è la partenza da un luogo, il paesino natio e la pompa di benzina che in potenza avrebbero di che raccontare all’Italia di ogni parte politica. La storia popolare del figlio di un benzinaio che si candida alla guida del paese, ha ben presente il senso del contatto emozionale con l’elettore più umile.
Poteva parlare a tal proposito di come la sua storia potrebbe essere non l’eccezione in un’Italia corporativa, nella quale hanno gioco facile i sociologi neomarxisti a parlare di subalternità di classe e di confinamento dei figli degli operai – indipendentemente da ogni merito intellettuale – nelle posizioni più infime della scala sociale, bensì l’inizio di un’altra storia fatta di uno shock di mobilità sociale sapientemente declinata al futuro.
Niente di tutto ciò. Quasi a voler rimarcare una diffidenza antropologica verso la comunicazione – un antico pregiudizio duro a sparire dalla testa della sinistra di formazione classica – le sue parole sono state declinate al passato con una fierezza vagamente autolesionista: “Sbaglia chi si presenta dicendo quello che farà prima ancora di spiegare chi è, perché le parole al futuro sono state un rischio di inganno. Invece quello che è scritto, è stato, c’è già”. È la traduzione in poche frasi della tesi dell’usato sicuro in contrapposizione al nuovo e mai sperimentato, ovvero Renzi. Ancora da Bettola: “Le foglie nuove possono venir fuori solo se ci sono già le radici”.
Concettualmente nulla da obiettare, se non che parlare di realtà al passato significa girarsi dall’altra parte. In questo caso, piuttosto che rifarsi a Giorgio Gori o a qualche sbarazzino venditore di narrazioni da “format” televisivo andrebbe la pena rifarsi al solito Norberto Bobbio del “De Senectute”: “Nelle società tradizionali statiche che si evolvono lentamente, il vecchio racchiude in se stesso il patrimonio culturale della comunità, in modo eminente rispetto a tutti gli altri membri. […] Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa”. La differenza viene fatta dal progresso tecnico – sintetizzando il pensiero del filosofo piemontese – e chi è più vicino anagraficamente o con la mente ad esso vince.
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