La Scozia potrebbe diventare indipendente nell’autunno del 2014. Questo pomeriggio a Edimburgo il primo ministro David Cameron e il “first minster” scozzese Alex Salmond hanno sancito un accordo per consentire ai compatrioti di Wallace di stabilire attraverso un referendum la strada da prendere: o l’indipendenza oppure il mantenimento della fedeltà a Londra, ma alle stesse condizioni di devolution di prima. Sulla Scozia incomberà la scelta più delicata per il suo destino politico degli ultimi 300 anni, mentre a Westminster sono i laburisti a rischiare di pagare il prezzo maggiore perdendo di colpo 40 seggi sicuri.
[ad]Un accordo che agli scozzesi potrebbe piacere in misura limitata. Salmond avrebbe agognato un incremento dei poteri di devoluzione con l’autonomia fiscale, che renderebbe di fatto la Scozia uno stato-nazione col beneficio di attingere alle casse reali per salvarsi dai debiti. Una costante storica se si pensa che nel 1707 l’atto dell’Unione fra Inghilterra e Scozia sopraggiunse proprio in seguito ad una situazione finanziaria sull’orlo della bancarotta. Anche in quel caso Edimburgo bussò alle porti di Londra per risolvere i suoi problemi contabili. Su una popolazione di 5,4 milioni di abitanti ammonterebbe – secondo uno studio condotto da Taxpayer Scotland – un indebitamento pari a 200 miliardi di sterline, scavalcando di 3 volte il livello di Pil. L’indipendenza farebbe conquistare l’autonomia fiscale senza la protezione economica britannica.
Il fattore convenienza in effetti pesa sui sondaggi e solo uno scozzese su tre avrebbe propensione al momento a separarsi da Londra. Il punto è che per Cameron sancire il divorzio dalla Scozia dopo una campagna in difesa del Regno Unito non sarebbe il peggiore degli scenari possibili da affrontare fra due anni.
Guardiamo ad un futuribile, ma realistico quadro politico. Il malcontento verso il governo lib-cons di Cameron e Clegg è altissimo e fino a quando non ci sarà un barlume di ripresa economica per il tandem sarà molto dura risollevarsi. Questo scarterebbe la possibilità di sciogliere la Camera dei Comuni un anno prima della scadenza naturale com’è buona abitudine fra i primi ministri forti nei sondaggi. Quindi, il referendum scozzese avrà effetto fin dalle prossime elezioni (nella primavera del 2015) sulle sorti della Camera.
La storia politica insegna ai conservatori – usciti nel 2010 vittoriosi, ma non abbastanza da evitare l’incubo dell’hung parliament – che avere 59 seggi, 58 dei quali sempre saldamente in mano a laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi possa essere un grande ostacolo alla formazione di un governo e di una maggioranza monocolori.
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[ad]L’indipendenza sarebbe di gran beneficio elettorale per la destra britannica. Tutto a spese dei laburisti, che potrebbero avere il problema opposto. Attualmente il partito di Ed Milliband conduce nei sondaggi col 42% di intenzioni di voto contro il 33% dei Cons e il 9% dei Libdem. Secondo una proiezione di Ukpollingreports i laburisti otterrebbero una maggioranza di 98 parlamentari. Vantaggio che si dimezzerebbe “amputando” dalla cartina elettorale la Scozia. Qualora dovesse buttare male fra tre anni, per Cameron la prospettiva di recuperare qualche punto percentuale e di affidarsi nuovamente ad una Camera “appesa” sarebbe la migliore delle prospettive. In caso di inversione del trend elettorale, poi, i Tories beneficerebbero di una maggioranza ampliata.
Un capolavoro di “Gerrymandering” che – paradosso dei paradossi – in questo caso sarebbe tanto sfacciato da brillare per trasparenza e chiarezza. Nessun disegno tortuoso dei collegi elettorali, a differenza di quanto fece l’inventore del genere, l’indimenticato governatore del Massachusetts Elbridge Gerry. Impossibile individuare il classico “effetto salamandra”, simbolo politicamente riconoscibile ma una domanda ci si dovrà porre assieme al quesito sull’indipendenza scozzese: pagherà cotanta furbizia in terra britannica?