In Bersani non c’è il passato ma un’idea diversa di futuro

bersani

Bersani apre la sua campagna per le primarie a Bettola, nel suo paese natale. Viene subito spontaneo accostare mentalmente quella piazza in un piccolo paese negli Appennini con il palco veronese da cui Renzi ha annunciato la sua candidatura. La contrapposizione non potrebbe essere più netta.

La piazza di Bettola è gremita di una folla che si assiepa anche tutto intorno al segretario. Bersani parla da un piccolo podio leggermente rialzato. Tutto attorno militanti, abitanti di Bettola, simpatizzanti, semplici curiosi, in piedi ad ascoltare. Lo stile del discorso è semplice, sobrio, volutamente schietto (“Noi non racconteremo favole”).

[ad]Il grande palco da cui invece parla lo sfidante Renzi è vuoto. Il pubblico è ordinatamente seduto in platea, pronto a sventolare cartelli e bandierine con il nome del leader ad uso delle telecamere. La scenografia è curata alla perfezione, lo slogan della campagna campeggia ovunque. Il discorso evidentemente è stato studiato e limato alla perfezione nei contenuti, nei tempi, negli immagini, nelle pause.

Da una parte semplicità e autenticità, dall’altra una calcolata perfezione tecnica. Due stili, due modelli storici di riferimento: il comizio politico di piazza e la convention di tipo americano che la sinistra europea ha tentato di importare fin dall’inizio degli anni Novanta, assieme alle idee della Terza Via blairiana.

E questa contrapposizione nelle forme, nel linguaggio scelto si riflette anche nei contenuti, nei temi chiave dei due discorsi. La chiave di lettura più immediata, che molti commentatori hanno impiegato per leggere questa contrapposizione è la dicotomia passato/futuro. Renzi, si dice, parla non di provenienze, di identità, di tradizioni, ma propone una visione del futuro. Bersani invece, come ha detto con un’immagine brillante ieri Carlandrea Adam Poli proprio qui sul Termometro Politico “è come se si rivolgesse a un migliaio di persone, giunte da molte parti del paese per ascoltarlo e incitarlo, dando loro le spalle”.

Non c’è dubbio che Bersani, iniziando la sua campagna abbia parlato di memoria, di passato, di identità (“uno che si candida, che si presenta agli italiani, deve dire quel che farà, sì, ma prima di tutto deve dire chi è”). Ma chi si fermasse a questa lettura rischierebbe di avere una visione limitata della contrapposizione, limitata perchè subalterna a una delle due proposte in campo, quella di Renzi appunto. Impostare le categorie del discorso che anche l’avversario è costretto a usare è un elemento che fa parte di quella che Antonio Gramsci chiamava egemonia culturale. Le stesse categorie che si impiegano in politica non sono neutre ma spesso implicano già un’interpretazione e una valutazione, benché nascosta. Liberare la descrizione di una posizione dalle categorie imposte dall’avversario è il primo passo per intenderla correttamente

Bersani in piazza a Bettola

Vediamo come avviene ciò in questo caso. Renzi parla molto di futuro. Dice, giustamente, che bisogna recuperare una visione di lungo periodo del futuro “da qui al 2037”. Ma non sembra dare molta importanza al contenuto di quel futuro. Ciò che si intende fare viene definito un po’ sbrigativamente come “la lista della spesa” e posto in una posizione subordinata rispetto all’atteggiamento del porsi come orientati verso il futuro. Un futuro che sarà possibile solo se noi vorremo farlo. E se vorremo farlo “adesso!” Con questa parola d’ordine Renzi vuole invitare alla mobilitazione, ad agire ora. Gianluca Briguglia sul Post (http://www.ilpost.it/gianlucabriguglia/2012/10/14/renzi-e-bersani-due-modelli-di-story-telling/) dice che in questo modo la campagna di Renzi si pone come performativa, come una campagna cioè che invita a credere nella narrazione proposta attivandosi perchè si realizzi. Questo porsi come colui che realizza il futuro, che raccoglie attorno a sé quelli che “vogliono il futuro” lo porta automaticamente, per una contrapposizione naturale a presentare gli altri come quelli che invece rimangono fatalmente legati al passato, quelli che rifiutano il rinnovamento, che temono il futuro.

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Ma non è così. Se ci affranchiamo dalla narrazione renziana ci accorgiamo che in quella di Bersani -che non è solo una narrazione, ma anche e prima di tutto una pratica politica collettiva di militanti, intellettuali, simpatizzanti– non c’è il passato, ma una diversa idea di futuro.

[ad]Un futuro però che non viene concepito come una fuga in avanti, come qualcosa per costruire il quale basti un atto di volontà. Questo certo è fondamentale e infatti Bersani richiama il passato non per una rievocazione nostalgica ma per ricordare un momento fondamentale della nostra storia in cui questa volontà si è manifestata: il dopoguerra e la ricostruzione. Questo periodo rappresentò un grande momento di sforzo e di impegno collettivo, e anche di coraggio. Si ebbe tutti insieme (perchè l’idea dell’azione collettiva è caratteristica dell’idea di Bersani, contrapposta al profondo individualismo di cui il discorso renziano rimane impregnato) la forza di superare un drammatico momento storico. Il riferimento al passato dunque è tutto il contrario di un amarcord, ma è invece una potente analogia col presente: così come allora ce la facemmo anche oggi che siamo nella più grave crisi da allora, se saremo capaci di un rinnovamento morale e di un impegno collettivo, potremo farcela.

Ma si potrebbe dire: perchè esprimere questo messaggio con un richiamo al passato, invece che in altra maniera? Perchè questo ha un significato particolare in questa fase storica. Uno dei cardini della seconda Repubblica era proprio la rimozione del passato, l’oblio delle radici culturali e ideologiche dei partiti e del paese. Il fallimento di questa Seconda Repubblica sotto pressochè tutti i fronti dovrebbe avere dimostrato come l’idea del rinnovamento assoluto, totale, che non fa i conti col passato e non parte da un’elaborazione critica della Storia (per distinguere in essa ciò che si valuta positivamente e ciò che si vuole condannare) partorisce in realtà un rinnovamento inefficace, che riproduce dietro la patina esteriore nuovista le stesse identiche contraddizioni del passato.

Più in generale alla base di questa idea di rinnovamento c’è l’idea della storia come qualcosa di vivente, l’idea cioè che la storia non sia mai veramente qualcosa di totalmente passato, ma qualcosa che contribuisce a determinare il presente e a cui dobbiamo rapportarci nell’agire politico.

Il rinnovamento di Bersani è un rinnovamento più complesso di quello di Renzi. Un rinnovamento più graduale, progressivo se si vuole. Un rinnovamento nelle persone (Bersani si è impegnato, se vincerà le primarie e andrà al governo a “girare la ruota”, a far entrare moltissimi giovani in ruoli di responsabilità, e questo è in parte già avvenuto nella struttura del partito) ma prima ancora nelle idee. Già da diversi anni durante la segreteria di Bersani una complessa riflessione culturale è stata avviata, una riflessione storica, filosofica, economica (si pensi ad esempio per quest’ultimo ambito alle analisi di Stefano Fassina, che da due anni dice cose che solo ora istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale iniziano ad ammettere, e cioè che la politica europea di austerità non solo è socialmente distruttiva ma anche controproducente per i debiti pubblici), proprio per riempire di contenuti quella parola che è “rinnovamento”).

Certo, si tratta di un lavoro meno appariscente, che spesso non è evidente alla maggioranza degli elettori. Si tratta però di un’impostazione radicalmente alternativa rispetto a quella di Renzi. Per Renzi il rinnovamento viene prima, a prescindere, e poi la proposta politica viene “costruita” strada facendo sull’onda della candidatura. Per il partito che Bersani guida invece è la proposta politica l’essenziale ed è in base a questa che una nuova generazione può proporsi come realmente “nuova”. E’ questa la via che hanno scelto i giovani che sostengono Bersani: concentrarsi prima sulla creazione di idee nuove e di una nuova proposta politica e in base a questa chiedere (come ha fatto Matteo Orfini) che la vecchia generazione si faccia gradualmente da parte. Questo sulla base della convinzione che il cambiamento vero avvenga solo sulla base di una comprensione reale e profonda della realtà attuale e storica in cui si è inseriti e non semplicemente mettendo nuove persone al posto delle vecchie.

Si tratta naturalmente di una strategia meno immediata e più difficile da comunicare. Ma forse è solo in questo modo che l’Italia può essere veramente cambiata.