L’esito delle elezioni legislative tenutesi il primo ottobre in Georgia non lascia dubbi. Seppur le regole istituzionali ridimensionano l’accaduto – il cambio di maggioranza al Parlamento in un sistema semi-presidenziale dovrà attendere l’ottobre 2013 (data delle elezioni presidenziali) per trovare completa legittimazione – è evidente il passaggio di consegna dei poteri, e del Paese entro il quale questi vengono esercitati, tra lo sconfitto, Mikheil Saakashvili, e il vincitore, Bidzina Ivanishvili.
[ad]Passaggio non avvenuto però, come da abitudine democratica, tra un candidato e un altro ma tra un clan e un altro. Il premio previsto dalla roulette elettorale georgiana non era infatti la guida generosa di un popolo scoraggiato ma il controllo capillare delle istituzioni garantenti l’illegalità dei business di chi si sarebbe rivelato vincitore. Saakashvili, dipinto per lungo (forse troppo) tempo come esempio di riformatore filo-occidentale, ha iniziato infatti, a seguito dei conflitti con il Cremlino per il controllo delle separatiste regioni di Abkhazia ed Ossezia del Sud, a preferire nelle questioni interne il bastone alla mediaticamente rappresentata carota. La punta dell’iceberg, toccata con i video riportanti le violenze a cui i carcerati dell’oramai famosa “prigione n.8” sono stati sottoposti, nascondeva in realtà una più longeva mala abitudine di insediare nei posti chiave delle istituzioni figure a lui fedeli. Il dubbio, presumibilmente certezza futura, è che il suo sfidante, oggi Primo Ministro, possa determinare proprio in merito a ciò la sua continuità con uno schieramento che, durante la campagna elettorale, non si risparmiava di definire antitetico.
Ivanishvili, uscendo dall’alone di mistero che lo ha accompagnato sino a un anno fa, potrebbe presto rivelarsi infatti ben diverso dall’immagine del distributore di prebende, forte del suo patrimonio personale (6,4 mld di dollari) pari alla metà del Pil georgiano, arrogatasi durante la campagna elettorale. Dietro al proverbiale aspetto da uomo d’affari, egli nasconde tutto l’enigma di ogni self-made man. Se fossimo ancora nella spensierata epoca dell’American Dream, nulla potrebbe essere obiettato alla storia personale di uomo di successo fattasi storia universale di un’intera generazione. Ma poiché Tbilisi è situata tra il 41° e il 43° parallelo, e l’area geo-politica in cui è radicata ci ha spesso riservato diffusa complicità tra autorità politico-istituzionali e oligarchi, il dubbio nasce spontaneo. Nasce spontaneo quanto non spontanee sembrano essere le carte con cui il neo-Premier ha fatto saltare il banco. Sia le sue imprese metallurgiche che le sospette banche in cui ha ricoperto posizioni amministrative (Russkiy Credit, MarkPolBank, Roscredit) sembrano poter essere ricondotte infatti alla sua stanza moscovita dove, da oramai non più spiantato contadino di una delle province dell’Impero, Ivanishvili ha dato il là alla sua ascesa, servendosi della complicità del battagliero e spregiudicato amico fraterno Vitaly Malkin. Tentando di trasformare le opache trame intessute all’epoca delle selvagge privatizzazioni di Eltsin in medaglie al petto, Ivanishvili ha evidenziato recentemente le redditività di queste ai fini di una nuova apertura economica verso Mosca. Sostenendo però la contemporanea volontà di non intaccare i processi di avvicinamento della Georgia all’Unione Europea e alla Nato. Soggetto a cui il Ministro della Difesa russo, Alexander Lukashevic, ha dedicato le seguenti parole: “La Nato non ha ancora imparato la lezione dei tragici eventi del 2008”, in riferimento ad Abkhazia ed Ossezia del Sud. Biunivocità ardua insomma.
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[ad]Un appunto merita parimenti il ricorso di Ivanishvili a discutibili scelte volte ad aumentare il bacino di consensi. Ultimando il make-up della sua immagine post-elettorale egli ha infatti deciso di schierare tra i titolari del nuovo Gabinetto anche l’ex stella del calcio italico Kakhaber Kaladze, nominato Ministro dell’Energia. Il consenso plebiscitario riservato dal popolo georgiano a coloro che conquistano fama al di fuori dei confini nazionali garantisce così nuova legittimazione alla sua immagine di successo, issandolo come buono tra i buoni.
L’amara considerazione finale la cedo alle parole di una amica georgiana di stanza a Leopoli. Sconsolata, Keti, esponendomi il suo punto di vista sull’esito elettorale, sentenzia: “Il problema è che i georgiani sono sempre in attesa di eroi, hanno sempre bisogno di un leader. Nonostante la presa di coscienza e le scottature ricevute dai precedenti presunti eroi-leader, ogni qualvolta messianicamente se ne presenti loro uno nuovo, non possono far altro che seguirlo. Contribuendo al cambiamento dei feudatari che si impossessano del feudo, evitando però corrispondentemente il cambiamento del feudo stesso”. Brecht e la sventura del Paese “che ha bisogno di eroi” riecheggiano a gran voce tra le strade di Tbilisi.