Romney, il pareggio di bilancio per tornare a crescere
Il pareggio di bilancio, what else? Romney sta provando a vincere la campagna elettorale per le presidenziali sulla sua competenza da manager spietato, che salva le aziende e gli Stati colpendo a suon d’accetta i costi – anche se coincidono con migliaia di posti di lavoro –, e col far tornare i conti come unico obiettivo. L’America in effetti è ammalata di debito pubblico, 104% sul Pil, con un disavanzo annuo del 7%. Livelli che non si toccavano dalla fine della seconda guerra mondiale, quando il sistema di warfare e il piano Marshall incipiente portarono a scommettere su un intervento pesante dello Stato sull’economia.
[ad] “La matematica è la mia vita” ha affermato l’ex governatore del Massachusetts nel secondo dibattito tv e su questo si misura la freddezza riscontrata per buona parte delle presidenziali – si sa, i numeri da soli riscaldano poco i cuori degli elettori – e al tempo stesso la sua capacità di costruire una cornice narrativa coerente di responsabilità fiscale: le aziende si tengono in piedi per fare utili, famiglie e Stati prosperano sul principio del deficit zero. Lo scoglio enorme di questo racconto è che il rifiuto liberista e – almeno sul piano teorico – molto affine ai repubblicani del deficit spending va ad impattare sul muro della spesa sociale, degli stimoli fiscali. Molto spesso deprime nell’immediato il Pil, per agganciare – si spera – una ripresa robusta nel lungo periodo.
Il cuore della romneyconomics ruota attorno ad un ottimismo sconfinato verso il potenziale di ripresa della prima economia del mondo. Una media di espansione del 4% all’anno per far risalire le entrate fiscali e abbassare il rapporto percentuale del debito sul Pil. Ma l’ambizione di Romney è anche quella di scalfire il valore assoluto dell’indebitamento del governo americano? Una prima risposta nel suo programma si ha alla voce “spending”. Entro il 2016 dalla Casa Bianca il lavoro sarà per comprimere la spesa in conto capitale al 18% sul prodotto contro il 25% del livello raggiunto sotto la presidenza Obama. Il risparmio sarebbe sull’ordine del trilione di dollari, azzerando di fatto il disavanzo che viaggia ad ottobre del 2012 su 1,1 trilioni. A rendere più rotondo il risultato la spesa verrebbe limata di altri 300 miliardi con l’abolizione dell’Obamacare (valore 95 miliardi) e tagli alle sovvenzioni per arte, cultura, l’emittente pubblica Pbs, riduzione del 10% dei dipendenti pubblici.
Se il piano di Romney si fermasse qui probabilmente potremmo dire con facilità che entro il 2016 – in caso di vittoria nelle elezioni del 5 novembre – verrebbe issata la bandiera della stabilità finanziaria nel budget federale con avanzi primari elevatissimi degni dell’era Thatcher in Gran Bretagna. Di fatto, solo con questa pars destruens della spesa pubblica l’appeal elettorale dei repubblicani sarebbe stato compromesso. Logica conseguenza, pertanto, ha voluto che il candidato del Gop abbia fatto sua la bandiera degli sgravi fiscali alle persone e alle aziende. Prima di tutto Romney vuole rendere definitivo il taglio, deciso ai tempi di Bush, al 20% dell’aliquota marginale di tassazione per i redditi personali. Inoltre vorrebbe detassare dividendi e capital gain con una franchigia di 200 mila dollari.
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