Obama del 2008, Romney del 1920
Fosse stato quello di stasera un dibattito basato solo su argomenti, proposte politiche e capacità di conquistarsi voti sulla base di idee di leadership Obama avrebbe sicuramente prevalso, ma in misura molto contenuta. La politica estera è il dossier che di solito avvantaggia nelle competizioni l’incumbent, il presidente in carica: non esiste un leader politico più preparato di lui sulla materia. Il gioco di maggioranza-opposizione ben valevole in politica interna, viene meno per le relazioni internazionali. Lì c’è l’interesse nazionale e non si può fare lo shadow cabinet degli incontri coi capi di Stato o dei meeting per decidere interventi militari.
[ad]E in effetti il sondaggio Cnn – quello che abbiamo preso come riferimento per tutti e 4 i dibattiti televisivi di Usa 2012 – ci racconta di un successo per il presidente democrat di 8 punti percentuali. A dichiararlo vincitore sarebbe il 48% degli americani, contro un 40% che ha giudicato più convincente la prestazione dello sfidante. Per Cbs il margine sarebbe ancor più rotondo, 53% a 23% con una parità riconosciuta dal 24% degli spettatori. Quasi un ribaltamento delle posizioni di predominio del primo dibattito televisivo a Denver.
E questo più che nelle issues si è colto stasera dalla determinazione di Obama, dalla sicurezza personale mostrata a più riprese a fronte di un sorriso troppe volte stampato sul volto di Romney per risultare sinonimo di affabilità. Sull’economia il repubblicano ha avuto i suoi buoni guizzi, citando i suoi successi nel raggiungere gli obiettivi di risanamento dei budget in Utah, Massachusetts e da supermanager di Bain Capital promettendo agli americani che con la sua guida economica gli Stati Uniti non faranno la fine della Grecia. “Dobbiamo portare la torcia della libertà e della prosperità” ha detto nel suo messaggio finale.
Solo che l’intero dibattito è stato minato dalla sua condizione fisica. Occhiaie vistose, voce incrinata a più riprese nelle risposte in politica estera, anche la strada della moderazione sul Medio Oriente, sull’Iran e su Israele – dove non c’è stata ombra di differenza fra le azioni dell’attuale amministrazione e quelle promesse dal candidato del Gop – si è rivelata una via alla monotonia. Noia e fatica hanno restituito di Romney un’immagine ben lontana dalla vivacità preponderante di Denver o di New York. In Florida, proprio in uno stato decisivo per la vittoria, Obama è stato quello vitale – la sua battuta su cavalli e baionette a proposito dei tagli alla spesa militare scalerà la classifica su Youtube, c’è da scommetterlo –, propenso a giocare ancora una volta in netta antitesi, mentre l’ex governatore pur parlando dei 12 milioni di posti di lavoro da creare e dei conti da salvare è apparso iconograficamente agée. Rimettendo insieme i momenti salienti di questo dibattito forse i fendenti più efficaci mollati da Obama sono ruotati attorno ai riferimenti cronologici dell’agenda di Romney: “Hai una politica sociale da anni ’50, una politica economica da anni ’20 e una politica estera da anni ’80”. La campagna del presidente ha messo a segno un punto significativo, esaltando l’alternativa interpretata dagli spin del democratico: da una parte il “forward” l’andare avanti con le riforme di rottura, dall’altra il ritorno ai fallimenti interni e internazionali di George W. Bush.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)