Referendum: pro e contro

settimana politica

Referendum: pro e contro

Non bastasse la campagna elettorale per le prossime elezioni europee, i partiti hanno il loro bel da fare anche sulla questione del referendum, che si voterà due settimane dopo le europee, cioè il 21 giugno.

[ad]Come in occasione di tutti i referendum abrogativi in Italia, si è assistito al solito balletto di posizioni, chi a favore chi contro, nonché a discutibili manovre governative volte a far fallire il raggiungimento del quorum (una prassi ormai ben consolidata dacché i partiti al governo si sono accorti che è molto più facile affossare un referendum non invogliando i cittadini a votare, piuttosto che dire la loro per far votare “no”).

Proviamo qui ad elencare ed analizzare brevemente le critiche rivolte ai quesiti referendari, per provare a capire quali siano quelle con un fondamento concreto e quali quelle ascrivibili come rispondenti a interessi particolari di questo o quel partito.

1) La legge che uscirebbe dal referendum sarebbe peggiore della legge Acerbo del ’24;

2) Consegnare la maggioranza parlamentare ed il governo ad un solo partito è antidemocratico;

3) Berlusconi ne trarrebbe vantaggio andando alle elezioni da solo, vincendole, e governando per vent’anni senza interruzione;

4) Il referendum non è lo strumento adatto per intervenire su una regola del gioco così delicata come la legge elettorale;

5) Se vincono i “sì” non sarà più possibile modificare la legge elettorale;

6) Il referendum non risolve il problema dell’eterogeneità delle maggioranze di governo.

***

1) Una critica che si sente spesso, specie da parte di settori del centrosinistra, all’interno ma soprattutto all’esterno del Pd, è quella che la legge risultante dalla vittoria del referendum (che di qui in poi definiremo guzzettum) sarebbe persino peggio della storicamente vituperata legge Acerbo del 1923, applicata per la prima (ed unica) volta per le elezioni politiche del 1924. Questa legge prevedeva un premio di maggioranza (due terzi dei seggi alla Camera dei Deputati) alla lista che avesse preso più del 25% e fosse risultata la più votata.

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[ad]Chi sostiene che il guzzettum sarebbe peggio della Acerbo lo fa sulla base del fatto che, oltre a condividere il concetto di premio di maggioranza (55% invece di 2/3) alla lista più votata, non prevedrebbe una soglia minima per poter accedere a tale premio, che nella Acerbo era invece individuata nel 25%. Ora, l’attuale legge Calderoli prevede che il premio di maggioranza del 55% possa essere assegnato anche ad una coalizione (ed è questo il punto che il referendum chiede di abrogare), ma non esclude affatto la possibilità che questo possa andare anche ad una lista singola, se questa risulta avere la maggioranza relativa: inoltre, le soglie di sbarramento previste dalla Calderoli per le coalizioni sono così basse (10% nazionale alla Camera, 20% regionale al Senato) che il terrificante scenario paventato dai critici che ricorrono a questo argomento risulta essere altrettanto probabile oggi, anche senza che vinca il referendum. Se vi sembra estremamente improbabile che una coalizione di partiti prenda solo il 20-30%, dovrebbe sembrarvi almeno altrettanto improbabile che un partito, in uno scenario come quello delineato dal guzzettum possa risultare il più votato e prendere meno del 30-35%. La bipolarizzazione del voto, come insegna Sartori, prescinde dalla legge elettorale, non ne è derivato; e questo è tanto più vero nel caso italiano, in cui da qualche anno si tende ad una semplificazione partitica che sta portando ad avere due partiti grandi (25-40%), pochi di medie dimensioni (5-10%) e per il resto piccoli o piccolissimi (che non arrivano al 5%).

2) Paragoni improvvidi con la Acerbo a parte, si sente spesso dire che grazie al guzzettum sarebbe un solo partito ad ottenere la maggioranza ed a governare, e questo sarebbe antidemocratico. Sicuramente sarebbe insolito, per la tradizione dell’Italia repubblicana, ma sul fatto che sia antidemocratico sorgono molti dubbi. Elenchiamo qui solo un piccolo campione dei paesi in cui un solo partito ha la maggioranza in parlamento e governa: Francia; Regno Unito; Germania (anche se più spesso qui si ha un grande partito coalizzato con uno medio-piccolo); Spagna; Stati Uniti d’America. Non sono certo esempi di dittature. La risposta appropriata a chi fa questa critica è la seguente: non è una legge elettorale a determinare se in un paese il sistema politico è democratico o meno; i parametri che definiscono una democrazia sono altri, e segnatamente i sette punti magistralmente indicati dal politologo americano Robert Dahl sono un riferimento obbligato per un’analisi degna di questo nome. Il fatto che in Italia un paio di questi punti siano messi da anni in discussione (per quanto riguarda libertà di espressione e varietà/alternatività delle fonti di informazione per i cittadini) non è affatto dovuto ad eventuali storture dei sistemi elettorali che abbiamo avuto nel corso degli anni.

3) Dal fronte del centrosinistra più di una voce si è levata infine sull’opportunità di appoggiare una modifica della legge elettorale che, allo stato dei fatti, consentirebbe a Berlusconi, in caso di elezioni anticipate, di ottenere agevolmente la maggioranza in entrambe le Camere senza avere più nemmeno bisogno dell’appoggio della Lega, e addirittura di poter cambiare la Costituzione a suo piacimento. Cominciamo da quest’ultimo punto, davvero il più ridicolo. Per cambiare la Costituzione la procedura prevede una doppia lettura ed approvazione a maggioranza assoluta da parte di Camera e Senato; ma al momento della seconda votazione sarebbe necessario approvare la modifica costituzionale con una maggioranza di almeno i due terzi, altrimenti si renderebbe necessario un referendum confermativo, come già accaduto nel 2001 e nel 2006. E come farebbe Berlusconi con il 55% dei parlamentati a cambiare la Costituzione come pare a lui se avesse bisogno dei due terzi o comunque di una conferma popolare tramite referendum? Non si sa, non c’è alcuna differenza con la situazione attuale e non si capisce il senso di questa critica, spiace anzi che sia stata fatta propria da un intellettuale colto come Francesco Pardi.

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[ad]Ma il problema di fondo di questa critica sta più alla radice, e chiama in causa la stessa eventualità che si vada automaticamente alle urne subito dopo la vittoria del referendum. A decidere di andare al voto anticipato non può essere certo il presidente del Consiglio, per quanto potente come Berlusconi. Se il governo cadesse per un voto di fiducia contrario, come ha annunciato come probabile la Lega se dovesse passare il referendum, non è assolutamente automatico che si debba ricorrere al voto anticipato. La Costituzione prevede che il Presidente della Repubblica deve verificare se esista una maggioranza parlamentare che possa concludere la legislatura, e deve ascoltare in merito i presidenti delle due Camere e i capigruppo dei partiti. Se, come è probabile, il Popolo della Libertà sostenesse la validità del guzzettum come legge elettorale da usare subito per nuove elezioni, tutti gli altri partiti preferirebbero discutere di una nuova legge, e avrebbero i numeri per approvarla anche senza il PdL (inoltre un’intesa, tra i soggetti in questione, potrebbe tranquillamente essere trovata sulla legge elettorale in vigore in Germania, o persino sull’abrogazione in toto della Calderoli ed un automatico ritorno al mattarellum). Se invece la Lega non facesse cadere il governo, avrebbe lo stesso i numeri per cambiare la legge elettorale insieme ai partiti dell’opposizione, e qualcosa si è già mosso in questo senso.

In ultimo, ma non da ultimo, occorre considerare che non ha senso considerare come “eterno ed immutabile” l’attuale consenso maggioritario di Berlusconi, e che negli scorsi anni i partiti che poi hanno formato il Partito democratico più volte hanno ottenuto più voti della somma di Forza Italia ed Alleanza Nazionale, ovvero i partiti che sarebbero confluiti nel Popolo della Libertà. Oggi Berlusconi gode di un forte consenso, ma per quanto tempo esso durerà, soprattutto considerando l’instabilità del sistema politico italiano, non è possibile dirlo; quel che si può certamente dire è che boicottare il referendum perché si è convinti di perdere le prossime elezioni non è certamente un argomento degno di questo nome.

Stupisce che queste semplici considerazioni siano sfuggite anche ad un eminente costituzionalista come Stefano Rodotà nel momento in cui esprimeva le sue critiche.

A questo punto urge fare chiarezza sull’intento dei promotori del comitato referendario; nell’impossibilità di abrogare totalmente la Calderoli tramite referendum, essi hanno lavorato di “cesello” per farne scaturire una legge che, se lasciata immutata, aveva come obiettivo quella di produrre maggioranze parlamentari, e quindi governi, più omogenei e di conseguenza più stabili. Non bisogna dimenticare che il contesto in cui è stato promosso questo referendum è il periodo del governo Prodi, sostenuto da una maggioranza di una decina di soggetti, molti dei quali minuscoli, ciascuno con un enorme potere di ricatto vista la risicatissima maggioranza al Senato. In seguito con l’autoriforma del sistema partitico, avviata dalla scelta del Pd di andare alle ultime elezioni senza la sinistra “radicale”, la situazione a livello di stabilità è molto migliorata, a prescindere dal giudizio politico sull’attuale maggioranza; ciò nonostante il governo continua ad essere un governo di coalizione che necessita del sostegno della Lega Nord. E in ogni caso l’intento dichiarato del duo Segni-Guzzetta era quello di fornire ai partiti uno “stimolo” per superare la pessima legge Calderoli, così come il referendum del 1993 aprì la strada alla riforma (attuata in sede parlamentare) della legge elettorale che sfornò il mattarellum. I referendari dell’epoca, tra cui i radicali, gridarono al tradimento della volontà popolare espressa con il referendum per la non coincidenza della nuova legge con il testo referendario; ma questo precedente ci ricorda che non è affatto scontato che una vittoria del referendum “blindi” il testo uscito dalla vittoria del “sì”, ed anzi, come abbiamo visto i numeri in Parlamento suggeriscono che esiste una maggioranza trasversale che possa mettere mano ad una nuova legge, o comunque abrogare la Calderoli (modificata o meno).

4) e 5) Quanto appena detto risponde alle osservazioni (legittime) sull’inadeguatezza dell’istituto del referendario rispetto ad una materia così delicata come la legge elettorale (per il suo essere una “regola del gioco” fondamentale) e sulla preminenza invece del Parlamento; e risponde, anche, al timore infondato, anche questo espresso dal professor Rodotà, che una vittoria del “sì” possa significare che la legge deve restare necessariamente il guzzettum.

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[ad]6) Dicevamo che l’intento dei referendari era quello di ridurre la frammentazione consegnando ad una lista le “chiavi” della maggioranza parlamentare e quindi di un governo potenzialmente molto più stabile rispetto a quelli visti in passato. L’intento è nobile, ma destinato a rimanere deluso, almeno in parte. Infatti, non esiste una legge che obblighi le liste elettorali ad essere espressione di un determinato partito realmente esistente; la legge attuale infatti parla di “liste” o “coalizioni di liste”, ed il referendum può intervenire solo abrogando parti di legge; non può intervenire anche sostituendo la dicitura “liste” con la più appropriata “liste di partito”, come sarebbe opportuno. Non c’è dubbio infatti che, stanti così le cose, una vittoria del referendum spingerebbe i partiti, o almeno alcuni, a formare listoni che comprendano più partiti pronti a dividersi nuovamente una volta eletti in Parlamento; la chiave di volta sta nella disponibilità maggiore o minore dei partiti di fondersi in liste uniche, rinunciando così al loro simbolo, o comunque come minimo “inquinandolo”. Sarebbe sensato proporre un listone di centrosinistra sul modello della vecchia Unione, con dentro dai teodem ai vendoliani, con un proprio simbolo che accantonerebbe quello del Pd? Naturalmente no, anche se è possibile. Accetterebbe la sinistra radicale di far correre i suoi candidati sotto il solo simbolo del Pd? Alcuni forse sì, altri decisamente no. Lo potrebbe accettare Di Pietro? A parole fondersi nel grande soggetto di centrosinistra che dovrebbe essere il Pd è lo scopo “ultimo e definitivo” del suo partito/movimento, ma nei fatti sarebbe disposto a farlo perché “costretto” dalla legge elettorale? E per venire al campo di centrodestra, di certo non si può credere che Casini possa lasciarsi facilmente “assorbire” da Berlusconi come è successo a Fini. Né è facile credere che possa farlo la Lega, che del Cavaliere pure è fedele alleata, ma il cui senso di “identità”, così come quello dei suoi elettori, è uno dei più forti che ci siano tra i partiti italiani; senza contare che la Lega viaggia ormai su percentuali che le consentirebbero di superare qualsiasi sbarramento anche correndo da sola: se i leghisti sono contrarissimi a questo referendum non è perché temano di non riuscire a superare gli sbarramenti, ma perché Berlusconi non avrebbe più bisogno di loro per vincere le elezioni e governare, e quindi verrebbe meno il loro “potere di ricatto”. Che poi è esattamente il motivo per cui questo referendum crea tanti mal di pancia tanto nei partiti a sinistra del Pd come a pezzi importanti dell’Idv. Quest’ultima critica, quindi, si dimostrerebbe fondata se si verificasse, come è del resto plausibile, una corsa all’aggregazione forzosa in listoni “pigliatutto”.

 

Salvatore Borghese