A giorni la decisione del Pdl se mandare a casa anzitempo il governo Monti. La tenda rossa con una fantasia dorata ha ricordato nel colpo d’occhio dello spettatore una cartolina esotica fuori dall’Europa, i cinquanta minuti di monologo prima di darsi in assaggio – perché di vero pasto non si può parlare – a poche domande dei giornalisti hanno fatto rivivere gli ultimi 18 anni di carisma e regime. Diciotto anni dopo e con molto meno fiato nei polmoni. Gli impedimenti costituzionali – ricostruiti anche troppo minuziosamente per avere una qualsiasi utilità di tipo comunicativo –, i bastoni fra le ruote e l’errore di non essere mai riuscito a convincere il 51% degli elettori a votare Forza Italia o il Popolo della Libertà, liberandolo dall’intralcio degli alleati e pure dall’ottemperanza a troppo dettami della Carta.
[ad]Un armamentario ripetuto stancamente per arrivare in fondo ad afferrare la preda: Mario Monti. “Con lui la crisi è infinita” ha affermato, unendo in una manciata di minuti il pre-ultimatum al governo e la sua disavventura giudiziaria. E congiungendo in maniera fin troppo trasparente i quattro anni di reclusione inflitti nel processo sui diritti televisivi col suo ritorno in campo. Tanto che per demolire le politiche economiche del SalvaItalia ha riservato poche battute, gli strali peggiori li ha indirizzati al fiscal compact e alla Germania – per i motivi da spiegare tra qualche riga – per legittimare il suo candore legale nella lotta alla condanna in primo grado per evasione fiscale ha coniato un neologismo, magistratocrazia (la dittatura delle toghe) e chiamato al tavolo della conferenza stampa il suo avvocato di riferimento, Niccolò Ghedini.
Difesa a spada tratta dalla sentenza sfavorevole dei giudici di Milano e anti-europeismo sono i due fili sapientemente legati dal Cav. In una veste molto ben conosciuta dagli italiani, quella del Caimano che si pappa i principi dello Stato di diritto per difendere interessi personali. Una maschera che non ha avuto esitazione a indossare.
Si capisce che ripensare alla ridiscesa in campo in stile ’94 o molto più prosaicamente ad un nuovo predellino peggiorerebbe solo la causa. E, in effetti, dei passi indietro e delle repentine retromarce Silvio Berlusconi salva soltanto il suo proposito di non correre nuovamente come premier. Conosce il suo epilogo di leader maggioritario, ha trascorso almeno 4 degli ultimi 6 anni rivitalizzato da una nuova inaspettata giovinezza politica che non può tornare per motivi cronologici, biopolitici. La sua strategia muta poco, l’obiettivo è la salvezza e lasciare le redini ad una riunione dei moderati. La tattica cambia per intero. Non più l’uscita di scena, il ritiro – almeno in un ruolo da protagonista – dalla vita politica, ma un prepotente ritorno da uomo di rottura.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)
[ad]Se fino a ventiquattr’ore fa l’appoggio al governo Monti era coinciso con notizie positive sul fronte processuale, la condanna spezza con un colpo di penna il legame fra il Pdl e l’esecutivo. E per maggiore nettezza il cielo politico creato dal Berlusconi odierno è stato riempito delle nuvole nere del populismo e della sovranità monetaria. Da questo discende la risposta al vetriolo a distanza di un anno della sua derisione al vertice europeo fra Merkel e Sarkozy: “Con i loro sorrisetti hanno assassinato la mia credibilità politica”. Spiega il ritorno al Silvio “stampatore di moneta” ostile al fiscal compact e all’indipendenza della Banca Centrale. Con un abbozzo di programma, dall’abolizione dell’Imu alla sostanziale inibizione dei metodi spicci per recuperare l’evasione fiscale di Equitalia, di certa presa populista e di grande spavento per la coalizione montiana. In attesa di poter tornare a trattare sul tavolo a lui più caro, quello della giustizia.
Oltre non potrà spingersi, perché lo scenario apocalittico di un ritorno anti-euro e da sfasciatore dell’Unione Europea all’estero era stato previsto: un italiano in America, Luigi Zingales condensò questo suo incubo in un editoriale sull’Espresso. Ma la condizione fondamentale per il successo dell’operazione era che Monti fallisse e uscisse di scena da uomo sconfitto dallo spread. Il debito pubblico sarà pure al 126% – Obama per molto meno rischia di lasciarci le penne fra dieci giorni –, le riforme economiche somministrate con dosi da erboristeria, tutto vero, ma il default è stato quantomeno allontanato dall’orizzonte.
Un elemento di speranza, specie per chi nel Pdl vorrebbe trovare finalmente stabilire dopo 18 anni da fedeli scudieri l’emancipazione politica. Sarebbe, quindi, il grande momento di Angelino Alfano. In parte bruciato dalle battute dell’ex premier sulla sua mancanza di “quid” e non sufficientemente midollato da bloccare in estate la minaccia di fare per la sesta volta consecutiva il candidato per Palazzo Chigi, il segretario del Pdl ha fra i piedi un assist rocambolesco per dire almeno questa volta “no” a Berlusconi e cominciare una nuova storia politica almeno con un gesto di discontinuità. Il Cav. Potrebbe finire per odiarlo, ma migliaia di eletti e milioni di elettori – smarriti politicamente dal dover concentrarsi sulla singola disavventura giudiziaria di una sola persona – potrebbero innalzarlo finalmente a loro guida.
Perché alcune volte le leadership nascono con un messaggio televisivo di 8 minuti dopo che la magistratura ha lasciato il campo vuoto, altre volte per la scadenza naturale dei mandati (dinamica conosciuta in Italia solo su base amministrativa), nella maggior parte dei casi col nuovo presidente che si spende in un parricidio del vecchio leader. Renzi docet.